sabato 30 marzo 2019

"La scuola delle donne” al Teatro Mercadante: quando una commedia attraversa i secoli


RECENSIONE - Le donne che scrivono, le donne che pensano sono una maledizione per Arnolfo. Lui per moglie vuole una donna che sia “proprio terra terra“. Lo confessa a un amico nei primi cinque minuti della rappresentazione, sicuro che questo sia l’unico deterrente per evitare di diventare “becco”, cornuto. Una premessa, quella su cui si costruisce la vicenda de “La scuola delle mogli”, che oggi dovrebbe farci ridere a crepapelle per la sua dose di assurda misoginia. E invece la commedia di Molière dal 1662 attraversa i secoli e arriva nel 2019 con la sua bruciante attualità. Arturo Cirillo alla regia – e sul palco nei panni dello stesso Arnolfo – si serve della traduzione di Cesare Garboli e in un solo atto riporta alla ribalta una storia esilarante con un retrogusto amaro. Si ride e ci si commuove riflettendo su certe precauzioni maschiliste, sulla gelosia, sull’amore, sul matrimonio, sull’adulterio e sull’importanza della cultura per una donna. Da mille applausi le interpretazioni degli attori (Valentina Picello, Rosario Giglio, Marta Pizzigallo, Giacomo Vigentini) e frizzanti le musiche curate da Francesco De Melis. Lo spettacolo, al momento in scena al Teatro Mercadante di Napoli fino al 31 marzo, sarà allestito dal 4 al 7 aprile anche presso il Teatro delle Muse di Ancona. E se è vero che certe mogli tradiscono i mariti, “La scuola delle mogli” invece non tradisce assolutamente le aspettative del pubblico.

Di Valentina Mazzella dal Napolisera.it in data 29 marzo 2019.


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venerdì 29 marzo 2019

Assurdo! Troppo assurdo!



"È stato un sogno assurdo! Troppo assurdo, assurdo!" continuava a ripetere Anna accostata al lavello della cucina. In mano una grossa tazza di camomilla.
"Ti dico che mi sono svegliata tutta sudata".
Serena non l'ascoltava con particolare attenzione. Era appollaiata con le gambe incrociate su una sedia accostata al tavolo. Con aria annoiata inzuppava da troppo tempo lo stesso biscotto nella sua tazza di latte. Fare colazione con lo stomaco chiuso non era per niente facile. Le dispiaceva, ma quella mattina non aveva davvero la testa per ascoltare le paturnie notturne della sua coinquilina.
Ciononostante Anna proseguì imperterrita con il suo racconto. "Tanto per iniziare nel sogno sapevo di trovarmi a Parigi! Hai capito? A Parigi! Ed ero con Piero, il direttore... Sembrava dovesse venire a piovere. Così abbiamo iniziato a scendere in tutta fretta giù per una scalinata. Ma i gradini erano gradoni! Erano enormi! Mi arrivavano all'incirca qui" e si indicò un fianco posando la tazza di camomilla nel lavello. "Quindi dovevo fare a ogni gradone un salto per mettere piede su quello successivo! E Piero scendeva tutto disinvolto, mentre io avevo paura di cadere a ogni passo! Assurdo, assurdo! Troppo assurdo!".
"Vero, troppo assurdo..." bofonchiò Serena senza alzare lo sguardo dalla sua tazza. Stava inzuppando lentamente un secondo biscotto con aria affranta.
"Ma non è finita qua: ascolta!" squittì visibilmente agitata Anna.
"Certo...".
"Praticamente finalmente le scale finiscono e ci troviamo davanti all'ingresso di un albergo molto elegante, sicuramente di lusso. Aveva le porte in vetro girevoli all'entrata. Piero doveva parlare con qualcuno... Non so con chi, non so perché fossimo lì. Sai come funziona nei sogni, no?".
"Sì, lo so..." rispose Serena.
"Ecco, mi lascia da sola nella hall. Lo attendo buona buonina accanto al bancone della reception, ma lui non tornava più! Allora attraverso la hall a grandi passi e mi dirigo verso una gigantesca porta tutta in legno. Era un albergo probabilmente a cinque stelle, di lusso... Te l'ho detto questo?" domandò Anna con voce quasi affannata. 
"Sì, me l'hai detto questo...".
"Era tutto in legno, pavimenti di marmo, dettagli in oro... Tutto in stile classico, ma molto chic! Anzi, sai che ti dico? Sembrava di essere nel Titanic! Nel Titanic come viene ricostruito nel film di Cameron. Te lo ricordi il Titanic?".
"Ricordo il Titanic" rispose Serena con la voce più passiva del mondo. Con noncuranza lanciò un'occhiata all'orologio appeso alla parete sopra il frigorifero. Le lancette segnavano le sette e mezzo del mattino.
"Ecco, uguale! E cosa stavo dicendo? Mi sono persa... Ah, ho ricordato! Mi avvicino a questa porta e cosa ne esce? Colpo di scena! Non potrai mai indovinare! Prova!" la sfida Anna voltandosi a lavare la sua tazza con movimenti particolarmente energici. Era evidente che il sogno le avesse trasmesso una buona carica di adrenalina.
"Non lo so... Piero? Dillo tu, non mi piace indovinare" replicò Serena con voce morta.
"Uffa... E va bene: un orso! Ti rendi conto? Ne esce un orso! Da pazzi! E chiaramente cosa ho fatto secondo te? Sono scappata, ma è normale! Troppo assurdo, assurdo! Da pazzi!". Anna continuava a ripetere le stesse esclamazioni scuotendo la testa e ridendo, a metà fra l'essere incredula e divertita.
"Un orso..." mormorò Serena sbadigliando.
"Sì, tipo un orso bruno. Non lo so, ma aveva il pelo marrone ed era E-NOR-ME! Forse nella realtà avrei dovuto fingermi morta... Non si dice sempre così? È verità o una bufala?".
"Non lo so...".
"Mh..." rispose Anna con una smorfia piuttosto pensierosa. "In ogni caso l'orso mi raggiunge e mi placca da dietro. Allora io inizio a urlare, a urlare, a urlare...! Forse anche a piangere! Ero quasi all'uscita, ma l'orso mi bloccava ed ero sicura che avrebbe finito con lo sbranarmi viva! È stato orribile, davvero!".
"Ti credo...".
"Ma è stato in quel momento che ho sentito poi qualcuno urlare, credo, in francese. Eravamo a Parigi del resto! Però io non capivo, non capivo proprio nulla! Eppure avevo l'impressione che stessero urlando a me. Allora mi sono resa conto di essere ancora viva, mi sono voltata e... l'orso non c'era più! Al suo posto c'era un bambino! Capisci? Un bambino piccolo, bellissimo... Avrà avuto intorno ai sette anni, con i capelli castani a caschetto... E piangeva! Povera creatura! Mi abbracciava e piangeva! Allora ho ricambiato l'abbraccio e ha smesso di piangere! È stato dolcissimo! Non trovo le parole per spiegarti l'emozione, il trasporto... Troppo assurdo!".
Serena la guardò accigliata, con i gomiti sul tavolo e le mani a sorreggere il mento.
"A quel punto alle spalle del bambino ho visto una donna. Bassa e minuta, con i capelli neri e corti. Indossava una divisa blu. Forse è una dipendente dell'albergo, penso. Mi parlava in francese. Era sua la voce che avevo sentito, ma non capivo ugualmente cosa stesse cercando di dirmi. Allora è comparso Piero che gentilmente ha fatto da interprete. La donna era, sì, una dipendente dell'albergo e quello era suo figlio che quel giorno aveva portato con sé al lavoro. Mi invitava a non aver paura del suo bambino. Semplicemente ogni tanto si trasformava in un orso, ma non aggrediva... E poi mi sono svegliata".
Serena restò in silenzio qualche secondo fissando la sua tazza ancora colma a metà, poi commentò distratta: "Secondo me è angoscia".
"Cosa?". 
"Questo sogno... Secondo me esprime stati di ansia. Sei troppo agitata in ogni momento...".
"Dici sempre lo stesso..." protestò Anna con il broncio. "Per me non significa solo questo. Grida qualcosa di più profondo. La tua è un'analisi troppo... superficiale! Sicuramente è anche come dici tu, ma non può essere solo questo. La donna che parla in francese, Piero che fa da interprete, il bambino che non parla perché diventa un orso... Boh... Mi fa riflettere sulla comunicazione, non trovi?".
Serena tirò un sospiro profondo. Non aveva voglia di parlare. Aveva ben altro a cui pensare. Perciò tagliò corto rispondendo: "Può darsi". Poi si alzò da tavola. Prese la sua tazza e la posò nel lavello. A testa china chiese solo: "Scusa, potresti tu...?".
"Certo, la lavo io" acconsentì Anna con la sua voce squillante. Poi aggiunse: "Ma che hai? C'è qualcosa che non va? Ti vedo strana".
"No, niente" rispose Serena uscendo dalla cucina. Percorrendo il corridoio per raggiungere la sua stanza, ascoltò lo scrosciare dell'acqua del rubinetto accompagnato dalla voce di Anna che ripeteva ancora da sola: "Assurdo, troppo assurdo...".


Racconto di Valentina Mazzella.




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martedì 26 marzo 2019

"L'amica geniale": il geniale successo di RaiUno


RECENSIONEEra una grande sfida quella di provare a curare una serie-tv articolata in maniera così sofisticata quanto la quadrilogia dei romanzi de “L’amica geniale” di Elena Ferrante. Una scommessa vinta con un successo di ascolti internazionali per la direzione di Saverio Costanzo che ha prodotto gli episodi con RaiUnoHBO e la Timvision. Quella che racconta il profondo rapporto fra le due protagoniste, Elena e Lila, è una storia di un’altra epoca che sonda senza remore una varietà di argomenti: la complessità di un’amicizia al femminile, la criticità della miseria e di una stagnante stratificazione sociale, la condizione della donna ridotta a oggetto e la sua lotta per l’emancipazione, la profondità psicologica e l’impotenza di certi drammi, lo scontro fra delle ideologie politiche, la criminalità, gli abusi sessuali, i matrimoni combinati di un tempo, l’omertà e tanto altro ancora.


La fotografia è meravigliosa e suggestiva. Le scenografie ricostruite egregiamente, le locationall’aperto sono state scelte con gusto. I costumi, il trucco e il parrucco sono stati rifiniti nel dettaglio. La regia e il montaggio realizzati in maniera notevole. Anche la selezione del cast è stata eseguita in modo che gli attori rispecchiassero a perfezione i personaggi letterari. La scrittura dei dialoghi è a effetto. Sembra tutto impeccabile in questa serie-tv, anche la recitazione un po’ acerba di alcuni interpreti al primo ruolo davanti a una telecamera.





Protagonista indiscussa è sicuramente anche la città di Napoli con la sua lingua, i suoi panorami, le problematiche, gli usi, i costumi e le sue contraddizioni. Una Napoli del passato che non è banale scenario di sfondo. Primeggia nella storia quanto Elena e Lila che vediamo bambine e poi piccole donne. Grazie alle ottime performance di Elisa Del Genio Margherita Mazzucco e di Ludovica Nasti Gaia Girace, si vive per tutta questa prima stagione l’insicurezza, la passività, l’ammirazione e l’invidia di Elena nei confronti di Lila. Allo stesso tempo si resta rapiti dal genio magnetico e dall’audace forza di Lila che non scende a compromessi mai con nessuno. Ed episodio dopo episodio lo spettatore si convince che debba essere Lila la fantomatica amica geniale decantata dal titolo. E invece no. Il loro è un rapporto di amicizia fra due donne fatto di profondo amore, di stima, ma anche di tanta rivalità. Così il racconto dei loro amori e delle vicende umane dei vari personaggi del rione riescono a distrarre l’attenzione al punto giusto. Solo nell’ultimo episodio, quello che spiega le ali alla seconda stagione che attendiamo già con ansia, si comprende l’amara verità. In realtà l’amica geniale è forse Elena stessa perché solo con la cultura è possibile progredire. Senza l’istruzione e la cultura anche le migliori capacità possono essere sciupate e sprecate. Un messaggio educativo che mai fu più necessario ribadire come in questo periodo storico in cui si danno per scontati tutti i diritti, senza riconoscerne il giusto valore.




Pur amandola, Elena cresce invidiando Lila che a sua volta desidera segretamente solo ciò che Elena possiede: la possibilità di studiare. Lila non si piega mai di fronte a niente e a nessuno, ma è questa la sua debolezza. Per tutta la serie ripete che farà come decide lei, ma non è possibile. Con tono di sfida annuncia che lei alle scuole medie andrà lo stesso, che lei “il marchese” non lo avrà perché non lo vuole, che lei un libro lo pubblicherà anche senza il consenso della maestra, che lei realizzerà le scarpe che ha disegnato in una grande impresa anche senza l’aiuto di Rino, che lei Marcello Solara al suo matrimonio non lo vuole. E alla fine cosa ottiene? Niente di tutto ciò. Lila, almeno al termine di questa prima stagione, così affascinante e con l’atteggiamento vincente, di fatto fallisce in tutti i suoi propositi e raggiunge la realizzazione di alcuni suoi obiettivi solo grazie al sostegno degli uomini. Ed è forse proprio la maestra Spagnolo ad aprirci gli occhi su questa prospettiva. E noi, come Elena, comprendiamo alla fine che Lila avrebbe, sì, potuto lasciare il rione, ma non lo fa. Non basta andare dal parrucchiere o indossare qualche abito pulito per non far più parte delle plebe perché “non tutto quel che luccica è veramente oro". 


Di Valentina Mazzella dal Napolisera.it in data 20 dicembre 2018.




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martedì 19 marzo 2019

"Zanna Bianca”: il ritorno di Jack London sul grande schermo


RECENSIONEDici lupo e subito si pensa a Zanna Bianca. Almeno nell’ottanta per cento dei casi. Il resto della torta se la giocano Balto, “Il richiamo della foresta” dello stesso London e un classico del cinema come “Balla coi lupi”. È dunque innegabile: Zanna Bianca è un grande classico della letteratura che per questa ragione è stato riproposto sul grande e sul piccolo schermo più volte in tutte le salse. Ogni volta costretto a confrontarsi con le aspettative del vasto pubblico. E quest’anno non è stato da meno.
Parliamo del film d’animazione “Zanna Bianca” di Alexandre Espigares, fra l’altro doppiato nella versione italiana da Toni Servillo. Una pellicola nel complesso gradevole, anche per chi non ama il genere dell’avventura e non nutre particolari simpatie letterarie per il caro vecchio Jack. L’aspetto estetico del film divide il pubblico: c’è chi è rimasto piacevolmente colpito dalla bellezza semplice dei disegni e dei panorami innevati e chi invece ha trovato la troppo simile a quella di un banale videogioco della PlayStation 2 di prima generazione.

Altro spartiacque si apre per quanto riguarda la trama. La sceneggiatura di Serge Frydman, Philippe Lioret e Dominique Monfer ha rielaborato il soggetto originario del romanzo attingendo alcuni elementi anche da “Il richiamo della foresta”. Ne è fuoriuscito un prodotto che probabilmente avrà scontentato i puristi desiderosi di visionare una trasposizione il più fedele possibile alla carta. Dall’altra è stata partorita tuttavia un’opera forse più adatta anche ai più piccini. Non sono stati invece assolutamente alterati i temi fondamentali del libro come la riflessione sul rapporto dell’uomo con la natura, quella sulla differenza culturale tra i nativi americani e i bianchi, nonché il percorso di crescita di un piccolo lupo inteso del resto come la proiezione animale dell’autore stesso. Pertanto il cuore della storia è stato conservato e il film si presta a offrirne una nuova lettura più dinamica.
Di Valentina Mazzella  dal Napolisera.it in data 26 ottobre 2018. 

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domenica 17 marzo 2019

"Il giro dell'oca" di Erri De Luca: incontro fra un non-padre e il suo non-figlio di carta



RECENSIONE - Per Erri De Luca la scrittura nasce da un'urgenza interiore. L'ha dichiarato più volte. Scrive più per se stesso che per il pubblico. Pertanto non si cruccia più di tanto, spiega, quando qualcuno non apprezza un suo libro perché riconosce che probabilmente non si tratti del genere di lettore a cui i suoi racconti sono destinati. Un atteggiamento che da alcuni potrebbe essere giudicato espressione di superbia, ma è in realtà spia di una buona dose di coerenza nella propria passione artistica. Quindi di certo anche questa volta lo scrittore napoletano avrà fatto spallucce dinnanzi alle critiche di quanti lo accusano di scrivere ormai "solo per contratto". Gli stessi che lo rimproverano per i "noiosi contenuti ripetitivi", lo stile lento, il lessico obsoleto e le metafore troppo astratte. Eppure va detto che, volente o nolente, anche il meno coinvolgente dei romanzi di Erri De Luca resti ugualmente una piccola chicca. Dalla sua prosa poetica è sempre possibile ricavare qualche pagina o riflessione che ti apra gli occhi.

È quello che accade leggendo anche "Il giro dell'oca" (Edizione Feltrinelli), il suo ultimo romanzo. Come Geppetto si fabbricò un figlio intagliando il legno, De Luca per una sera plasma un figlio con la parola. È il figlio che non ha mai avuto, un bambino mai nato e per quella sera già adulto. Quello che una donna in gioventù concepì con lui decidendo poi di interrompere la gravidanza. Il libro si divide in due parti: una prima che ha la forma di un monologo dell'autore e la seconda in cui questo figlio di carta rompe il silenzio aprendosi al dialogo. Nel complesso è una sorta di testamento che lo scrittore butta giù per discutere l'assenza e la mancanza di un figlio mai avuto. Presto però l'idea della riflessione sulla paternità si rivela essere un pretesto per raccontare la vita di De Luca in una sorta di auto-intervista. È vero che vengono di nuovo spolverati temi cari allo scrittore e già affrontati in altre sue opere: Napoli, la sua infanzia, i suoi genitori, il suo attivismo politico nell'età della giovinezza, gli anni da operaio, il dolore per la scomparsa della madre, il suo rapporto con la scrittura e i libri in casa "tenuti sparsi come gli amori". Eppure ogni volta Erri De Luca riesce a evocarli in maniera diversa, con una veste nuova. Con un innovativo impasto di parole, con un dettaglio che regala una prospettiva in più. E non è facile. Ecco allora che questo incontro fra il non-padre con il suo non-figlio si riscopre confronto dell'autore con la propria coscienza, con i propri fantasmi. Un'occasione di analisi. Non solo di sé, ma anche delle differenti sensibilità. Un libro che medita sulle capacità della parola scritta, sulla realtà della sua consistenza e la rivelazione della scrittura. Così, come il non-figlio fa compagnia a Erri De Luca per una sera, "Il giro dell'oca" è un romanzo che intrattiene il lettore riscaldandolo per un paio di ore.


Di Valentina Mazzella



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giovedì 14 marzo 2019

Cosa "nobilita la persona" fra il lavoro, l'università e il reddito di cittadinanza?


Con la presente riflessione non si ha tanto l'intenzione di impelagarsi in una delle solite polemiche a proposito del tanto discusso reddito di cittadinanza. Piuttosto si ha desiderio di evidenziare quanto in fondo esso rappresenti un po' la punta di un iceberg, quello dei celeberrimi "problemi italiani". Tutti conosceranno il proverbio cinese: "Dai un pesce a un uomo e lo nutrirai per un giorno. Insegnagli a pescare e lo nutrirai per tutta la vita". Di norma lo si cita soprattutto in riferimento al genere di aiuto che sarebbe più opportuno offrire ai Paesi in via di sviluppo. E fin qui niente di discutibile. Eppure ci siamo mai soffermati a riflettere su quanto dovrebbe essere un modello di riferimento anche per noi? Si torna dunque al reddito di cittadinanza come soluzione per fronteggiare povertà e disoccupazione.

Al di là del discorso delle dinamiche prettamente economiche che riguardano la crisi italiana, lancio un quesito volutamente provocatorio: cosa "nobilita veramente la persona" fra il lavoro, l'università e il reddito di cittadinanza? Non esiste una risposta unica. Non si vuole assolutamente demonizzare chi farà domanda e magari otterrà il sussidio. Più semplicemente si vorrebbe spostare l'attenzione su alcuni aspetti socio-culturali. Fare qualche passo indietro e chiedere: cosa crea disoccupazione? Alla base vi è una concomitanza di fattori e non tutti legati al mercato, alla burocrazia, alla carenza di incentivi statali e quant'altro. Una fra le tante cause della disoccupazione in Italia è anche la forma mentis dell'italiano medio che porta alla formazione di persone per un determinato settore lavorativo già in esubero. È il classico esempio delle migliaia di laureati in giurisprudenza che abbiamo senza che poi tutti riescano effettivamente a lavorare con profitto maneggiando il diritto. Il reddito di cittadinanza può ovviare a questo genere di problema? Con le sue proposte occupazionali può riportare un po' di equilibrio fra offerta e domanda nel mondo del lavoro? Staremo a vedere.


Nel frattempo ci piace "filosofeggiare" e pensare che forse ciò che nobilita l'uomo sia seguire le proprie aspirazioni. Forse sarebbero più vantaggiose nuove riforme che per una volta la smettano di demolire l'istruzione, di abbassare l'asticella scolastica e di rendere le università dei parcheggi formato super-liceo. Forse la si dovrebbe smettere soprattutto con la pressione sociale del "pezzo di carta" che porta alcuni giovani studenti a gettarsi dagli edifici degli atenei per non essere all'altezza delle aspettative di familiari e conoscenti. Forse bisognerebbe farsi un'analisi di coscienza e alle volte purtroppo ammettere che il titolo non sia sempre garanzia di competenza, come dovrebbe avvenire in un mondo utopico. Forse, per quanto impopolare possa essere come pensiero, se si è in possesso di una laurea in Farmacia e non si trova lavoro, non è davvero in ogni situazione "colpa del sistema", "colpa dei raccomandati", "colpa di questo Paese da cui è meglio scappare". Forse hai conseguito gli esami per il rotto della cuffia ed è anche giusto che non lavori. Forse avresti dovuto fare altro nella vita e sei vittima di un problema italiano che non è unicamente la disoccupazione. È anche la sua cattiva abitudine di demonizzare gli istituti professionali e i lavori più pratici che portano ad affollare determinati settori più di altri. Perché la laurea in questa ottica non è più un traguardo raggiunto dopo un percorso di sacrifici che hanno portato all'ampliamento dei propri orizzonti. Resta appunto "il pezzo di carta" di cui parlavano i nonni. Qualcuno invoglia dicendo: "Pensaci, stringi i denti e poi dopo tre anni ti chiamano dottore". Ti chiamano: la denuncia ingenua di quello che per molti è uno status symbol e basta. Si è perso tutto il discorso della vocazione che varia da individuo a individuo. 

Ogni professione nobilita l'uomo ed è utile alla società. È necessario l'ingegnere che costruisca ponti che non crollino con un temporale quanto il panettiere che prepara un buon pane rispettando i tempi di cottura e le norme igienico-sanitarie dei forni previste dalla Legge. La felicità è relativa, ma gli italiani se ne dimenticano. Ogni tanto risvegliamo le coscienze per due o tre giorni alla notizia di qualche suicidio. Poi si torna a torchiare la figlia che confessa di volersi iscrivere a un istituto artistico piuttosto che a un liceo classico. E allora ogni mattina domandiamoci: cosa nobilita davvero la persona? Il lavoro, l'università o il reddito di cittadinanza? Mi rendo conto che l'accostamento abbia il sapore di un volo pindarico. Ma la realtà è che laddove onestà e dignità restano intatte, allora l'uomo viene innalzato, ognuno secondo le proprie attitudini.

Di Valentina Mazzella, dal Napolisera.it in data 14 marzo 2019.



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martedì 12 marzo 2019

La conchiglia di marmo



Quando da bambina accostavo le conchiglie all’orecchio sentivo la risacca, respiro del mare, e credevo possibile che quel piccolo involucro calcareo potesse aver memorizzato i suoni della spiaggia. Quando ne trovavo una, tornavo a casa convinta di aver messo in tasca un piccolo tesoro, di aver rubato un po’ della melodia dei giorni d’estate. Oggi, invece, so che si tratta di un’illusione acustica. Ne conosco la spiegazione scientifica: la cavità del guscio fa da cassa di risonanza per ogni onda sonora che dall’esterno giunge a far vibrare l’aria interna. La conchiglia non è un registratore. È strumento musicale. 
C’è quasi sempre una soluzione razionale. Per questo, nonostante la fede, domenica mi sono avvicinata scettica alla tomba di suor Maria Giuseppina di Gesù Crocifisso. Eravamo nella chiesa del monastero delle Carmelitane Scalze dei Ponti Rossi, a Napoli, in attesa della messa. Per il ritiro spirituale quaresimale Don Gianluca ci aveva condotti nella casa del clero di fronte al santuario.
“Ragazzi, io non ho mai sentito nulla, però qui c’è l’uso di appoggiare l’orecchio sulla tomba della beata affidandole le proprie preghiere. C’è chi dice di sentire qualcosa, ma non so altro di preciso. Ve lo dico nel caso in cui voleste…” disse Clara con voce sommessa per rispettare la sacralità del luogo. 
Ero con Marianna, Marilena e Raffaele. Assieme volgemmo lo sguardo verso una tomba in marmo a lato dell’altare. Sopra tanti fiori e la statua dorata di una monaca che con la destra innalza un crocifisso. Rappresentava proprio suor Maria Giuseppina, una carmelitana scalza che si racconta avesse rivelato capacità profetiche dopo esser stata miracolata da San Francesco Saverio. Gli altri e io ci guardammo l’un l’altro titubanti, ma decidemmo di avvicinarci lo stesso. Inginocchiate ai piedi della tomba vi erano già delle persone in contemplazione mistica. Ci disponemmo in fila. Io ero l’ultima. Non mi aspettavo nulla. Sicuramente molta gente si sarà lasciata condizionare dall’autosuggestione, mi dicevo. Uno ad uno vidi i miei amici inginocchiarsi, accostare l’orecchio sul marmo, chiudere gli occhi, stare fermi là meno di un minuto e poi rialzarsi. Con lo sguardo chiesi a Marianna se avesse sentito qualcosa. Mi capì al volo, senza bisogno delle parole, e con un cenno della testa mi rispose di no. Si alzò anche Raffaele. Ecco. Era il mio turno. Avanzai con lo spirito più diffidente che potessi avere. Aspettative zero. Anzi, mi avvicinai e non pregai neanche. Mormorai solo “Padre mio, perdonami per questa cosa un po’ pagana e idolatra” perché le mie preghiere le affido solo a Lui. Toccai il marmo della tomba. Era freddo. Appoggiai la testa sulla superficie e la guancia mi si gelò. Abbassai le palpebre. No, era buio. Riaprii gli occhi. Dovevo vedere. E quel che vidi fu la signora al mio fianco che, già in ascolto, aveva il viso rivolto verso di me. Accostai bene l’orecchio. Mi concentrai e… alzai di scatto la testa. Anche la mia vicina se ne accorse. Aprì gli occhi a causa mia. Mi guardò curiosa come per chiedermi se avessi per caso sentito qualcosa. Non le diedi peso e tornai ad accostare l’orecchio. Avevo sentito uno scroscio, come se qualcuno avesse gettato in strada uno secchio d’acqua. Adesso invece… passi. Qualcuno stava camminando là sotto. Trafficava là sotto. Saliva e scendeva lungo una rampa di scale che scricchiolava, in legno forse. Nessuno parlava. Con lo sguardo perlustrai l’ambiente che mi circondava. La signora al mio fianco aveva chiuso di nuovo gli occhi. Nessun passo o movimento delle persone che mi stavano attorno e che osservavo con attenzione era sincronizzato ai rumori che sentivo. Va bene, mi dissi: c’è una cantina sotto la chiesa. Mi alzai e andai da Marianna e Marilena che si erano sedute fra le prime panche. “Avete sentito anche voi i lavori?” domandai. 
“Quali lavori?” sbottò Marianna aggrottando la fronte. 
“Quelli nella cantina sotto” risposi.
“Quale cantina?”. Marilena era perplessa. “Noi non abbiamo sentito nulla”. 
“Ragazze, scherzate?”. Dei piccoli brividi mi sfiorarono le braccia sotto il maglione e la giacca. 
Ci raggiunsero anche gli altri e li invitammo a fare stesso. Perdemmo così quasi un’ora. C’era chi sentì delle unghie graffiare il marmo, ma poi capimmo che si trattava del rumore degli orecchini di chi si accostava alla tomba. Quelli che avevano già l’orecchio appoggiato percepivano quel ticchettio come se provenisse da dentro, dove ovviamente ogni suono veniva amplificato. Domenico, intontito, disse di aver sentito una voce dirgli “Bravo”. Simone parlò di gemiti di donna, al che una signora lo rimproverò severamente: “Questa è la tomba di una beata! Qui nessuno soffre!”. Annamarika insistette nel dire di aver udito un battito cardiaco, ma il fratello le ripeté tutto il giorno che probabilmente aveva sentito quello del suo stesso cuore. Solo Gianluigi sentì i rumori di cantina che avevo sentito anch’io. 
Quando nel tardo pomeriggio tornammo a casa in pullman ancora discutevamo. Anche chi giurava di aver sentito qualcosa era convinto che al massimo fosse stato un suono partorito dalla propria immaginazione o dalla coscienza. E anche a queste condizioni non ci interrogammo sui significati reconditi. Nessuno di noi credeva più che una conchiglia potesse contenere il mare.

Racconto di Valentina Mazzella (“Scritture in transito", 2015).


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domenica 10 marzo 2019

"A star is born”, il film simile a un grande concerto

    

RECENSIONE - Sono diversi i punti su cui focalizzare l’attenzione se si desidera parlare in maniera adeguata di “A star is born”, il film con cui l’attore Bradley Cooper ha debuttato alla regia. Senza peli sulla lingua possiamo dire che la promozione della pellicola abbia cavalcato molto la presenza nel cast di Lady Gaga nel ruolo di coprotagonista. Forse addirittura molti spettatori saranno accorsi nelle sale pensando che si trattasse proprio di un film sulla vita della cantante. E invece no, sebbene la storia di Ally e la biografia di Lady Gaga si allineino in diverse occasioni. Ammettiamo dunque che in termini di marketing questo equivoco sia stato una mossa molto astuta.

In realtà il film è il remake di una trama che più di una volta nel corso del Novecento è stata proposta sul grande schermo, in ogni occasione con una stella dello spettacolo diversa. Eppure, sebbene la trama non brilli pertanto di originalità, si tratta ugualmente di un’opera a modo suo capace di intrattenere, coinvolgere ed emozionare il pubblico. Senza ombra di dubbio soprattutto sul piano musicale: sul grande schermo sembra di assistere a un mega concerto. Inutile sottolineare come l’interpretazione di Lady Gaga sia davvero potente davanti al microfono, un po’ meno come attrice. Ma, non nascendo tale, le si può perdonare qualche defaillance recitativa.

Dal punto di vista formale la narrazione dei fatti sembra spezzata in due verso metà film e la regia di Cooper ha forse osato troppo con la sperimentazione delle inquadrature. Il risultato si rivela quindi un po’ dozzinale e affrettato soprattutto nella seconda parte. E questo emerge anche dagli sviluppi psicologici poco approfonditi di alcuni personaggi e dalla trattazione un po’ superficiale o del tutto assente di alcuni temi a cui una storia simile si prestava, ad esempio la corruzione dell’artista a opera dello star system.
Interessante invece il modo in cui viene affrontato il dilemma dell’identità e della maschera. Ottima e viscerale la rappresentazione della depressione, di solito portata sul grande schermo non con la medesima attenzione e schiettezza. In conclusione di tratta di un buon prodotto, con i suoi pregi e le sue pecche. Pecche da cui si spera che Lady Gaga come attrice e Bradley Cooper alla regia riescano a trarre una lezione per migliorarsi in futuri lavori cinematografici.
Di Valentina Mazzella, dal Napolisera.it in data 7 novembre 2018.

venerdì 8 marzo 2019

L'otto marzo: la donna "fauna speciale"?


Oggi è l'otto marzo, la festa della donna. Si potrebbe sperimentare un gioco, raccogliere una sfida. Provare a scrivere in merito senza menzionare una lista di parole. Ad esempio senza citare il femminicidio, il sessismo, il femminismo, le quote rosa, il sesso debole, lo stupro, le molestie sul lavoro, i rossetti, i disturbi alimentari, il parrucchiere, la concessione della maternità nei contratti, le violenze domestiche... Ma senza parlare dei suddetti argomenti di cosa si potrebbe discutere? La cerchia delle tematiche si restringerebbe vertiginosamente. Ed è penoso pensare che per parlare della donna ci sia sempre bisogno di tirare in ballo le sue lotte, i problemi di cui è vittima o i traguardi che faticosamente è riuscita a raggiungere. Nella migliore delle ipotesi viene considerato "da donna" ciò che l'opinione comune reputa frivolo: la moda, il trucco e il gossip.

Non a caso rammento due citazioni di Oriana Fallaci estratte dal suo libro "Il sesso inutile". Nella prima la scrittrice fiorentina spiegava: "I problemi fondamentali degli uomini nascono da questioni economiche, razziali, sociali, ma i problemi fondamentali delle donne nascono anche e soprattutto da questo: il fatto d'essere donne". Nella seconda: "Le donne non sono una fauna speciale e non capisco per quale ragione esse debbano costituire, specialmente sui giornali, un argomento a parte: come lo sport, la politica e il bollettino meteorologico". Se ho preso in prestito le parole della Fallaci è perché, come al solito, colpiscono dritte al punto senza troppi fronzoli. Allora le lascio a chi legge come input per meditare perché la realtà è che fino a quando si avvertirà l'esigenza di scrivere delle donne - anche una breve riflessione come la presente - significherà sempre che purtroppo la donna non abbia ancora raggiunto veramente la parità di genere. Pertanto, nel frattempo, che se ne parli senza esitazione perché il silenzio è la più grande delle minacce.

Di Valentina Mazzella, dal Napolisera.it in data 8 marzo 2019.



martedì 5 marzo 2019

"A Carnevale ogni scherzo vale": quando indossiamo veramente la maschera?


"A Carnevale ogni scherzo vale": è un modo di dire che non mi ha mai convinta perché con esso spesso si cerca di giustificare anche azioni che il Carnevale te lo rovinano. Ricordo fra le tante burle il brutale lancio delle uova che fa ridere unicamente i vandali. Lo scherzo non dovrebbe far ridere alla fine tutti quanti? E invece anche nel quotidiano le espressioni "Ma è solo uno scherzo" o "Sto scherzando" fanno spesso da scudo a cattiverie la cui natura non si vuole ammettere. "Con il sorriso si possono dire anche le peggiori malignità" diceva un mio professore di latino e torto non aveva. E oggi che viviamo il giorno di Carnevale questo ci porta a riflettere: la maschera la indossiamo nel giorno del Martedì Grasso o in tutti gli altri? Perché a pensarci bene è più plausibile la seconda ipotesi.

Non è un caso che storicamente il Carnevale sia anche la festa che per tradizione ha dato a lungo modo alla massa di capovolgere con fantasia prototipi e situazioni per poi dar sfogo a quanto di represso si conservava nel resto dell'anno. Pertanto in passato forse si era più veri quando la maschera la si toglieva piuttosto che il contrario. Ma oggi? Oggi continuiamo a fingere e non c'è bisogno di spremere troppo le meningi per ricordare subito quanto lo scrittore Luigi Pirandello pensava a proposito dell'uomo e delle sue maschere. Abbiamo tanti volti quante le persone con cui ci relazioniamo e forse da soli, senza nessuno con cui approcciarci, non siamo addirittura "nessuno". E poi potremmo divagare sul valore dell'ipocrisia e sulla linea sottile che separa quella necessaria per garantire il quieto vivere in società e la fantomatica falsità che fa salire l'orticaria a tutti. E per concludere c'è anche la schiettezza meschina che sputa veleno con i modi e le parole in nome di una verità che non è sempre genuina. Ebbene, in questo giorno di festa fra una lasagna e un lancio di coriandoli sarebbe interessante riflettere su noi stessi e sulle maschere che ogni giorno indossiamo, di frequente senza nemmeno esserne consapevoli.

Di Valentina Mazzella, dal Napolisera.it in data 5 marzo 2019.

domenica 3 marzo 2019

Riapertura delle “case di tolleranza”? Chissà cosa avrebbe pensato Pier Paolo Pasolini oggi



Cosa penserebbe o direbbe dell’Italia di oggi Pier Paolo Pasolini se fosse ancora vivo? È la domanda che affiora spontanea, turbata e seguita da un sospiro di sconforto, nella mente di chi rammenta quanto il grande intellettuale friulano abbia a lungo intuito e analizzato a proposito della società italiana già cinquant’anni fa. Oggi non importa quale mezzo di comunicazione sia la nostra fonte di informazione. Che si accenda il televisore, che si preferisca scorrere le pagine dei social, leggere i giornali o ascoltare la radio non fa la differenza: quasi ogni giorno inevitabilmente ci giunge la voce dell’ultima corbelleria del Ministro degli Interni Matteo Salvini. Di solito si tratta di posizioni alle quali in maniera obiettiva si contesta soprattutto l’incoerenza di fondo perché la pluralità di opinioni la si comprende, ma lascia sempre perplessi invece la sua convinzione che certi pensieri non stridano per nulla con il pacchetto di valori del Vangelo su cui giura in pubblico.



Tralasciando tuttavia questo aspetto, in questa sede si desiderava riflettere sull’incredibile retromarcia culturale che al popolo italiano viene indicata sotto mentite spoglie. La si chiama “difesa dei diritti e dei valori”, “soluzioni”, “giustizia”… Eppure con un lessico magari più attuale e disinibito vengono riproposti gli stessi usi, costumi e pensieri su cui Pier Paolo Pasolini, per dirne una, intervistò gli Italiani nel 1965 nel suo celeberrima film-documentario “Comizi d’amore”.
All’epoca sul tema dell’omosessualità le risposte apertamente esprimevano il dissenso nei confronti“dei vizi di certi invertiti”. L’anno scorso Salvini combatteva una crociata contro la Disney alla notizia di un’eventuale Elsa lesbica nel sequel del noto film d’animazione “Frozen”. La differenza sta nel mezzo secolo trascorso fra il primo e il secondo contesto.

In questi giorni invece si discute di nuovo di una potenziale riapertura delle “case di tolleranza” e allora tornano alla mente anche le conversazioni di Pasolinicon le donne e gli uomini sulla Legge Merlin del 1958. Possibile che quello dei bordelli debba ancora oggi, a distanza di sessant’anni, essere tematica di attualità? Possibile che si debba tornare indietro? L’Italia davvero non è cambiata di una virgola?
La teoria vuole che la riapertura delle cosiddette “case chiuse” conduca a un’accurata regolamentazione della prostituzione in Italia, a maggiori controlli sanitari delle prostitute e al pagamento di tasse da parte delle stesse allo Stato per l’esercizio della propria professione. Va bene, bella la teoria… ma in pratica? Innanzitutto si spera che la terminologia “case di tolleranza” sia esclusivamente evocativa per i “romantici” di altri tempi perché prima della Legge Merlin le case chiuse erano vere e proprie prigioni in cui era autorizzato lo sfruttamento sessuale. Pertanto almeno ci si augura che ciò a cui la proposta ambisce sia sempre un esercizio della professione in appartamenti privati autogestiti dalle stesse donne che lavorano e non da terzi che si grattano la pancia. Perché altrimenti sarebbe favoreggiamento dello sfruttamento e reintroduzione di vecchi stigma sociali del resto mai morti.

In secondo luogo si discute tanto dei controlli sanitari delle prostitute per difendere le “sex workers” e i clienti quando in realtà il problema è diverso. Iniziamo con il ricordare che come diceva Pasolini “quella delle malattie sia un po’ una scusa”. Le donne hanno tutto l’interesse del mondo nel tutelarsi, ma di base spesso sono paradossalmente i clienti in primis a chiedere rapporti non protetti con insistenza. E si tratta della scoperta dell’acqua calda se si pensa a qualsiasi inchiesta con telecamera nascosta realizzata dalla trasmissione “Le Iene” sul tema prostituzione. Ne consegue che, quanto a prevenzione medica, necessaria sarebbe maggiormente la responsabilizzazione dei clienti, nonché della società in generale che ancora non sembra preparata adeguatamente.


Poi arriviamo al punto “regolamentazione e tasse”. Perfetto: veramente si è così ingenui da credere che possa bastare schedare le lavoratrici nelle case di tolleranza per togliere i falò dalle strade? Le lucciole da marciapiede non scomparirebbero come in fondo esistono ancora il contrabbando delle sigarette e l’abusivismo in toto. La stragrande maggioranza delle ragazze che si prostituiscono nelle vie isolate spesso sono succubi di sistemi di sfruttamento affiliati con le associazioni a delinquere, come d’altronde è risaputo. Le straniere senza documenti e permesso di soggiorno continuerebbero a vendersi per strada senza registrarsi. E probabilmente anche molte Italiane preferirebbero non rendere di dominio pubblico la propria professione per pudore e per non versare le fantomatiche tasse. Il lavoro a nero non è nato mica ieri. E i clienti sicuramente continuerebbero a fare la fila magari per i prezzi più vantaggiosi come anni fa accadeva in Francia dove casalinghe e studentesse si prostituivano a nero sbaragliando lesex workers registrate, appunto grazie ai costi più contenuti.
In ultimo – sì, forse bigottamente, ma non me ne vergogno – c’è da chiedersi poi eticamente quanto sia corretto che lo Stato mangi con la mercificazione del corpo degli altriPasolini chiedeva a un signore di Napoli quanto fosse eticamente giusto “uno Stato magnaccio”. Per dirlo alla napoletana “uno Stato ricottaro” a spese delle donne. Non è questione di scandalo, di morale o di religione, ma di etica e valore umano. In realtà l’argomento è stato intavolato di nuovo dal vicepremier unicamente per buttare un po’ di fumo negli occhi agli Italiani e distrarli da problemi ben più gravi e impellenti. Tant’è che la Lega non si è nemmeno consultata con alcuna associazione attinente.

Tuttavia resta per noi sempre l’occasione per meditare sulla materia e magari interrogarsi piuttosto sui motivi, i contesti economici e sociali o l’avidità di certi modelli che inducono una donna a scegliere di vendersi per denaro. Ma su questo non si indaga, meglio nascondere la polvere sotto al tappeto. È davvero tanto utopico immaginare un mondo senza prostituzione? “Non sarebbe meglio se la prostituzione non ci fosse proprio?” era il quesito che “il commesso viaggiatore” in “Comizi d’amore” ripeteva cercando di comprendere. Significherebbe puntare su un’operazione di educazione sessuale, affettiva e sentimentale della società. Più facile raccogliere favore in nome di una presunta modernità più vecchia del 1958. Chissà cosa avrebbe pensato o detto Pasolini oggi…

Di Valentina Mazzella, dal Napolisera.it in data 2 marzo 2019.