lunedì 28 novembre 2022

“T&P. Totò e Peppino”, l’omaggio a Beckett di Antonio Capuano al Teatro Mercadante


RECENSIONE – Il sipario si chiude e lo spettatore ha addosso una strana sensazione indecifrabile. Una forte emozione lo travolge, nonostante lo spettacolo di per sé possa averlo disorientato. “T&P. Totò e Peppino”, con testo e regia di Antonio Capuano, ha trionfato così al Teatro Mercadante di Napoli, in scena già dal 16 novembre fino a domani, domenica 27. L’opera è un omaggio al drammaturgo irlandese Samuel Beckett (1906 – 1989) e, sulla scia del famoso Premio Nobel, si lascia inquadrare nel genere del Teatro dell’assurdo. Chi conosce Antonio Capuano attraverso i suoi lavori al cinema nota subito che lo stile è perfettamente nelle corde del regista.

La scenografia è semplice, essenziale. Gli occhi dagli spalti sono tutti per i due attori, unici e protagonisti, che canalizzano su di sé tutta l’attenzione del pubblico. Roberto Del Gaudio e Carlo Maria Todini interpretano rispettivamente Totò e Peppino in maniera magistrale. La voce e le movenze di Del Gaudio evocano tantissimo quelle del vero Antonio De Curtis. Durante le prove, Capuano ha concesso loro tanta libertà pur restando molto esigente.

La trama frastorna il pubblico. Di fondo perché non è una storia. Non ha inizio, sviluppo e conclusione. È una non storia. Elegantissima e confusa, divertente ed evocativa. I dialoghi sono una sorta di collage di citazioni famosissime di Totò, di Peppino, di Alberto Sordi e di Leopardi. I personaggi possono permettersi addirittura di rompere la quarta parete rivolgendosi ai presenti seduti in platea. Lo spettacolo è suggestivo, nostalgico e celebrativo. Appare come un meraviglioso quadro astratto in cui ogni sguardo può scorgere un aspetto nuovo.



Recensione di Valentina Mazzella, pubblicato sul Napolisera.it in data 26 novembre 2022.


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lunedì 21 novembre 2022

“L’ombra di Caravaggio” di Michele Placido, il film sul tormentato pittore che meritavamo


RECENSIONE – Portare sul grande schermo un personaggio complesso quale fu Michelangelo Merisi, detto “il Caravaggio”, non era una sfida semplice. Ciononostante “L’ombra di Caravaggio” di Michele Placido è nel suo target un film molto ben riuscito. Racconta la biografia del pittore con un ritmo svelto e serrato ricorrendo all’espediente più classico del genere thriller: la vita dell’artista viene ricostruita durante un’indagine sul suo passato dissoluto. Vari episodi significativi vengono evocati da dei testimoni e ricomposti come i pezzi di un puzzle. Ne fuoriesce il quadro di un uomo tormentato, ribelle, impetuoso. Un pittore ossessionato dalla ricerca della verità, dal desiderio di scardinare il tradizionale rapporto tra sacro e profano. Un amante carismatico, focoso, sregolato. Un credente appassionato dei Vangeli, compassionevole con gli ultimi.

La regia di Michele Placido è accurata, armoniosa. La sceneggiatura è stata scritta da Placido insieme a Fidel Signorile e a Sandro Petraglia. La fotografia ha un’ottima estetica e, immancabilmente, spesso strizza l’occhio ai giochi di luci e ombre che notoriamente contraddistinguono lo stile pittorico caravaggesco. Le scenografie, i costumi di scena e il trucco trasportano magnificamente il pubblico nei primi anni del Seicento italiano. Fiore all’occhiello per garantire l’effetto sono i dialoghi interpretati qua e là con accenti un po’ antiquati. Almeno quanto basta per rendere l’idea di una lingua in evoluzione e dei particolarismi parlati nella penisola. Non manca in ciò, volutamente, anche un certo piglio orientato a una sana teatralità.

Durante la narrazione appaiono alcuni personaggi storici altrettanto significativi per raccontare il periodo storico. Sono momenti emozionanti e ricchi di pathos. La vita di Caravaggio (Riccardo Scamarcio) si intreccia, ad esempio, con quella di San Filippo Neri (Moni Ovadia) presso la Chiesa di Santa Maria della Vallicella di Roma. Il pittore, nel film, conosce il frate domenicano Giordano Bruno (Gianfranco Gallo), condannato per eresia al rogo in piazza Campo dei Fiori il 17 febbraio del 1600. L’interpretazione di Gallo è a dir poco strepitosa: struggente, viva. Incontriamo addirittura una giovanissima Artemisia Gentileschi (la bravissima Lea Gavino, di recente già alla ribalta nel ruolo di Viola in SKAM Italia 5).

L’interpretazione di Riccardo Scamarcio nei panni del protagonista è notevole. La produzione, insomma, gode di un cast davvero di valore. Lo stesso Michele Placido veste la tonaca del Cardinal Del Monte. A seguire vediamo Micaela Ramazzotti come Lena (Maddalena) Antonietti e Lolita Chammah come Annuccia (Anna) Bianchini: le attrici interpretano due delle prostitute più note che si prestarono al Caravaggio come modelle. Isabelle Huppert è la Marchesa Costanza Colonna, il rapper Tedua è Cecco, Vinicio Marchioni è Giovanni Baglione, Louis Garrel è L’ombra che segue Michelangelo Merisi. Abbiamo poi Alessandro Haber (mendicante e modello del Merisi), Maurizio Donadoni (Papa Paolo V), Lorenzo Lavia (il pittore Orazio Gentileschi), Carlo Giuseppe Gabardini (Onorio), Brenno Placido (Ranuccio Tommasoni).

“L’ombra di Caravaggio” è un buon prodotto cinematografico. Ricco di cenni storici, cultura e filosofia. Le inesattezze e le licenze artistiche non sono molte. Ad esempio, al di là della toccante perfomance di Gallo, le fonti asseriscono che il Merisi non incontrò mai Giordano Bruno di persona. Probabilmente però conobbe la sua parabola attraverso delle conversazioni con il Cardinal Del Monte. Spiace, invece, per la scelta di non dare peso al personaggio di Fillide Melandroni: la donna fu amica della Bianchini, nonché anche lei prostituta e modella del Caravaggio. Storicamente si accredita di solito che il Merisi uccise Tommasoni proprio per lei. I due furono rivali in amore. Probabilmente vi erano alla base anche altri motivi economici e politici, ma parliamo dell’omicidio che costò al Caravaggio la condanna per decapitazione da cui è poi scappato fino alla morte.

Il film valorizza l’estro creativo del pittore, massimo esponente della corrente del Naturalismo che aprì le danze dell’arte moderna. Racconta la genesi dei suoi quadri più famosi. Esalta l’ardore e la passione con cui il Merisi si impegnava nella loro realizzazione. Da una parte “L’ombra di Caravaggio” evidenzia un temperamento furioso e veemente che creò al pittore innumerevoli problemi con la legge. Dall’altra un genio artistico travolgente e avanti con i tempi. L’arte ha nella pellicola una posizione di preminenza con lunghe inquadrature sulle opere e sui dettagli. I rimandi sono puntuali. Si celebra l’eccezionale talento del Caravaggio, quello che lo ha reso immortale nonostante sfidasse la morale dell’epoca dipingendo prostitute, ladri e mendicanti come Santi e Madonne in un’estenuante percorso di ricerca del vero.



Recensione di Valentina Mazzella, pubblicato sul Napolisera.it in data 19 novembre 2022.


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sabato 19 novembre 2022

“La stranezza” di Roberto D’Andó: Pirandello al cinema con Toni Servillo e il duo Ficarra e Picone

 


RECENSIONE – Pirandelliana. Una storia pirandelliana. Un film per chi ama la letteratura, per chi ama il teatro, per chi ama Luigi Pirandello. Davvero ottimo “La stranezza”, opera scritta e curata dalla regia di Roberto D’Andó che firma anche lo spettacolo teatrale “Ferito a morte”, in tournée per l’Italia proprio in questo periodo (ne abbiamo scritto qui https://www.napolisera.it/2022/10/28/ferito-a-morte-dal-romanzo-di-raffaele-la-capria-al-teatro-mercadante-con-la-regia-di-roberto-dando).

Luigi Pirandello (Toni Servillo) torna a Girgenti a causa di un lutto dopo il successo di Roma. Inizia a spiare le vicende di Sebastiano “Bastiano” Vella (Ficarra) e Onofrio “Nofrio” Principato (Picone). Si tratta di due agenti di pompe funebri che, appassionati di teatro, nel tempo libero scrivono e recitano con una piccola compagnia di dilettanti. Il drammaturgo siciliano trarrà dalle loro vite spunto per lavorare alla stesura della celebre opera “Sei personaggi in cerca d’autore” che sicuramente è tra le più celebri di Pirandello, assieme a “Uno, nessuno e centomila”, “Il fu Mattia Pascal” e “Novelle per un anno”.

Le interpretazioni del cast sono egregie. La prima parte del film è una commedia perfettamente sorretta da Ficarra e Picone. Battute ed espressioni strappano al pubblico diversi sorrisi. Eppure la trama non ha fondamento storico. Non si hanno testimonianze dell’esistenza della coppia di becchini. Ciononostante la loro presenza diventa nel film un espediente prezioso per raccontare il genio delirante di Luigi Pirandello, da sempre avanti con i tempi. Per riflettere sul rapporto tra realtà e finzione, tra verità e menzogna, tra lucidità e sogno.

Nella seconda parte del film Pirandello cessa di essere un osservatore silenzioso ed emerge tutta la febbre visionaria dei suoi colloqui con i personaggi letterari, il suo rimuginare sui vari aspetti e tasselli malinconici della sua vita privata. La pellicola è ricca di riferimenti e omaggi alla produzione letteraria dello scrittore: caratteristica più che apprezzabile per tutti i lettori che amano Pirandello. La fotografia e i dialoghi evocano tutta la bellezza della Sicilia assolata. Allo stesso tempo le scene al chiuso – nella penombra dei camerini e del palco dietro al sipario – solleticano negli spettatori un nuovo desiderio di tornare al teatro.



Recensione di Valentina Mazzella, pubblicato sul Napolisera.it in data 16 novembre 2022.


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sabato 12 novembre 2022

Teatro San Ferdinando, “La zattera di Gericault”: dai naufraghi della Medusa ai migranti moderni


RECENSIONE – Un episodio storico drammatico e cruento. Il naufragio di una nave in mezzo all’Oceano Atlantico. Allo stesso tempo il simbolico naufragio di una nazione politicamente fragile e la deriva della vita di un grande artista. “La zattera di Gericault” di Carlo Longo racconta una storia profonda grazie alla magistrale regia di Piero Maccarinelli. Lo spettacolo è in scena al Teatro San Ferdinando già dal 27 ottobre fino a domani, domenica 6 novembre 2022. Sul palco un cast eccezionale con Lorenzo Gleijeses, Francesco Roccasecca, Claudio Di Palma, Nello Mascia e Anna Ammirati. Le scenografie versatili, i costumi d’epoca e i giochi di luci permettono al pubblico di immergersi al meglio in una narrazione a ritroso nel tempo, dal 1818 al 1817. Un racconto che è possibile leggere su tre piani diversi.

Nel 1816 ebbe luogo un fatto di cronaca: una nave francese, la Medusa, naufragò incagliandosi su un fondale sabbioso al largo dell’attuale Mauritania. Oltre 250 passeggeri si salvarono grazie a delle scialuppe. La ciurma, composta da 147 uomini, si imbarcò su una zattera di fortuna, lunga venti metri e larga sette. Dopo due settimane per mare solo quindici persone furono salvate dal battello Argus. I sopravvissuti erano in condizione pietose, denutriti. Sulla zattera i più deboli erano morti per primi. A seguire erano stati consumati episodi di violenza, sopraffazione e addirittura di cannibalismo. Una storia di disperazione, di ingiustizie sociali e di lotta per la vita. Nonostante le dinamiche diverse, irrimediabilmente nella mente oggi sono evocate scene di grande attualità. Le immagini del dramma dei morti in mare nel Mediterraneo.

Il noto pittore Gericault scelse l’argomento per realizzarne un grande quadro, un capolavoro che desidera venisse poi acquistato ed esposto dal Museo Louvre. Il tema fu apprezzato da molti, ma purtroppo contestato da altrettanti critici d’arte perché l’evento, così recente, spaccava ferocemente la scena politica della Francia in due. Il sovrano Luigi XVIII intuì subito che il naufragio dipinto non fosse un naufragio qualunque, ma quello della Medusa a causa del quale in tanti puntavano il dito contro la monarchia che aveva reso capitano un comandante senza meriti effettivi.

Dallo spettacolo emerge tutto l’ardore del giovane Gericault desideroso di rappresentare il vero confezionato ad arte. Gericault, esponente del Romanticismo francese, prende le distanze dalla perfezione del Neoclassicismo. Non desidera esaltare i vincitori. Celebra i nuovi eroi che sono i vinti, gli sconfitti. È in cerca di gloria. Nel suo laboratorio studia l’anatomia di pezzi di cadaveri, analizza il colorito della pelle in putrefazione. Sulla tela vuole rappresentare la morte, il dolore, la sofferenza. Ne è ossessionato. Forse per distogliere l’attenzione dalla sofferenza della sua vita privata: il tormento per la separazione dalla donna che ama – la giovane moglie dello zio che lo ha cresciuto – e dal bambino illegittimo che hanno concepito insieme. Tribolazione e patimento stritolano la sua anima profonda. L’anima di un artista visionario capace, con la sua pittura, di parlare alle coscienze ancora dopo ben due secoli. 


Recensione di Valentina Mazzella, pubblicato sul Napolisera.it in data 5 novembre 2022.


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martedì 8 novembre 2022

"Ferito a morte”, dal romanzo di Raffaele La Capria al Teatro Mercadante con la regia di Roberto D’Andó

RECENSIONE – Sul palcoscenico del Teatro Mercadante di Napoli una storia malinconica, corale e soprattutto evocativa. La nuova stagione teatrale ha ufficialmente aperto il sipario con “Ferito a morte”, uno spettacolo curato dalla regia di Roberto D’Andó. La rappresentazione è un omaggio a Raffaele La Capria, autore dell’omonimo romanzo che nel 1961 vinse il Premio Strega. Lo scrittore quest’anno avrebbe compiuto cent’anni, ma è venuto a mancare tre mesi prima del suo compleanno. Lo spettacolo era già in programma grazie al fascino che il libro esercitava ed esercita su Roberto D’Andó e su Emanuele Trevi che ha lavorato all’adattamento della sceneggiatura.

Sul palco l’eccellente lavoro di squadra di una compagnia composta da ben sedici attori. Il talento indiscusso di Andrea Renzi, nei panni del protagonista (Massimo da adulto), è affiancato da un cast di valore: l’energica Gea Martire (la signora De Luca), Sabatino Trombetta (il protagonista Massimo da giovane), una deliziosa Aurora Quattrocchi (la nonna), lo spassoso Giovanni Ladeno (Ninì), Marcello Romolo (zio Umberto), un meticoloso Paolo Cresta (Gaetano), Giancarlo Cosentino (il signore De Luca), la versatile Clio Cipolletta (Assuntina), un impeccabile Matteo Cecchi (Cocò), Laure Valentinelli (Carla) e poi ancora Paolo Mazzarelli (Sasà), Antonio Elia (Glauco), Rebecca Furfaro (Betty), Lorenzo Parrotto (Guidino) e Vincenzo Pasquariello (il cameriere).

In scena al Mercadante già dal 19 ottobre fino a domenica 30, “Ferito a morte” andrà prossimamente in tournée a Modena (Teatro Storchi, 3 – 6 novembre 2022), a Torino (Teatro Carignano, 8 – 13 novembre 2022), a Perugia (Teatro Morlacchi, 16 – 20 novembre 2022), a Roma (Teatro Argentina, 10 – 15 gennaio 2023), a Milano (Teatro Strehler, 17-22 gennaio 2023), a Cesena (Teatro Bonci, 26 – 29 gennaio 2023) e a Genova (Teatro Ivo Chiesa, 8 – 11 febbraio 2023). Un’opportunità da non perdere per chi ha amato il libro da cui è tratto, ma anche per chi desidera scoprirne la trama con l’approccio suggestivo che solo il palco può regolare.

Le scenografie incantano il pubblico intrecciando magistralmente teatro e cinema. Proiezioni, coreografie e voce narrante riescono a immergere lo spettatore in un’atmosfera liquida e ovattata. Senza dubbio grazie anche a un brillante lavoro tecnico sul sonoro che spesso ha permesso ai presenti di percepire le voci dei personaggi come attraverso il timpano perforato dello stesso protagonista. Un orecchio ferito al mare, un udito danneggiato che allegoricamente rende Massimo sordo ai richiami di una realtà da cui ormai si sente distante. Gli eventi sono ambientati tra il 1946 e il 1954: la scelta delle musiche e dei costumi evocano degnamente lo charm elegante e brioso degli anni Cinquanta.

La trama è semplice, intima, raccolta. La narrazione incalzante. L’io narrante del protagonista, Massimo, dal proscenio richiama alla mente un giorno della sua gioventù. Non un giorno qualsiasi. La vigilia della sua partenza da Napoli per Roma, dove avrebbe cambiato vita con un nuovo lavoro. Quello stesso dí Massimo, ancora ragazzo, ripercorreva nella memoria le ultime estati, le amicizie, l’amore per una fanciulla di nome Carla Boursier. Episodi, dinamiche e aneddoti sono un pretesto sfruttato da La Capria per descrivere la giovane borghesia napoletana, futura classe dirigente del meridione, che trascorre il tempo in ambienti chic come il Circolo nautico e il Bar Middleton. Napoletani che in realtà parlano “il napoletanese”, non il classico dialetto del popolo.

I dialoghi suonano come monologhi, come l’espressione di un flusso di coscienza. Cruciale nel romanzo e nello spettacolo la conversazione a tavola, durante il pranzo della domenica, a Palazzo Donn’Anna tra alcuni parenti di Massimo e Gaetano, il professore di suo fratello Ninì. Uno scambio prorompente di battute e osservazioni che soppesano Napoli in maniera minuziosa. La Napoli delle dualità, “quella bagnata dal mare e quella che il mare non bagna”. La Napoli “foresta vergine” laddove è complicato riuscire a districarsi. La Napoli da cui Massimo vuole scappare, da cui non vuole essere sopraffatto. La Napoli che è una città che “ti ferisce a morte o t’addormenta o tutt’e due le cose insieme”. 



Recensione di Valentina Mazzella, pubblicato sul Napolisera.it in data 28 ottobre 2022.


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