giovedì 13 giugno 2019

"La bella estate" di Cesare Pavese e il passaggio dall'infanzia alla vita adulta


RECENSIONE - Si tratta solo di un centinaio di pagine, eppure "La bella estate" (1940) di Cesare Pavese è un romanzo breve di tutto rispetto. Non a caso fa parte di un trittico che con "Il diavolo sulle colline" (1948) e "Tra donne sole" (1949) nel 1950 vinse il Premio Strega.

La storia raccontata è ambientata nella Torino del secondo dopoguerra, quella negli anni Quaranta. Ecco allora che scrittura, atmosfere e costumi ci appaiono molto diversi da quelli odierni, sebbene mai "vecchi". A discapito della positività espressa dal titolo, ogni pagina è impregnata di una forte malinconia. Il lettore è invitato a vivere la quotidianità della protagonista, Ginia, nella stagione del suo passaggio dall'infanzia all'età adulta e ad assaggiarne con lei tutti i bocconi amari che questo comporta. È il racconto di un'estate così come metaforicamente in fondo ogni adolescente ha attraversato nella propria vita. 

Ginia ha sedici anni e pensa ingenuamente di essere già "grande" perché vive con il fratello maggiore badando da sola alla casa. Invece nel confronto con la disinibita amica Amelia si renderà conto, pur senza ammetterlo apertamente, di essere impreparata alla vita degli adulti a cui desidera appartenere. L'epoca descritta è quella in cui le ragazze venivano educate alla poca confidenza accordata ai ragazzi e al pudore. Pavese racconta l'emancipazione femminile così come viene percepita inconsciamente da Ginia ed Amelia, come una forma di ribellione al perbenismo e agli altri schemi della società borghese del tempo. Fumare, frequentare caffè, tornare a casa di notte, posare nude, avere amicizie maschili sono tutti modi per loro di rivendicare la propria indipendenza. Ciononostante dietro a tanta apparente spensieratezza non vi è felicità. Solo inquietudine. L'inquietudine tipica dell'adolescenza, ma non solo. L'amicizia fra le due ragazze non è veramente genuina, ma contrassegnata da opportunismo e una celata competizione femminile. La solitudine, la smania di non esser da meno rispetto ad Amelia e il desiderio di sentirsi amata e apprezzata spingeranno Ginia a lasciarsi affascinare da un ambiente quasi bohemien di giovani pittori improvvisati. Vivrà pertanto un primo tormentato amore, forse vissuto solo a senso unico, sciupando tuttavia innocenza ed energie per quella che si rivelerà una delusione.

"La storia di una verginità che si difende" è la definizione che Cesare Pavese scelse per indicare il sunto della sua opera. Ed effettivamente siamo di fronte a un lavoro letterario in cui la componente erotica si avverte forte, eppure con eleganza. Un erotismo che non ha nulla a che fare con la spregiudicatezza, spesso volgare e fine a se stessa, di oggi. In linea con i tempi, quello di Pavese è un erotismo delicato inserito in un clima emotivo troppo spesso grave in cui ogni dettaglio si presta a molteplici interpretazioni. Si pensi anche solo alla tenda che inizialmente aveva ispirato addirittura il titolo del libro. Una tenda che separa la fanciullezza di Ginia dalla sua nuova identità di donna, ma anche il visto dal non visto e il raccontabile da quanto invece è preferibile tacere.

Di Valentina Mazzella


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giovedì 6 giugno 2019

Dialogo con un imbuto di plastica




"Forse hanno ragione. Forse sono davvero pazzo" disse Paolo ad alta voce. Si massaggiava le tempie disegnando con i polpastrelli piccoli cerchi invisibili. Erano settimane che avvertiva una grossa tensione.
"Perché dici così?" chiese l'imbuto di plastica. Era sul tavolo a cui Paolo sedeva. Era bianco e capovolto con il beccuccio all'insù.
"Mi sembra ovvio: per colpa tua! Perché parlo con te!".
"Mi spiace. Mi spiace molto crearti di questi problemi" rispose l'imbuto rammaricato.
"Lascia stare... Non è realmente colpa tua. È che sono pazzo. È il mio cervello a essere difettoso..." commentò Paolo con gli occhi serrati. Avrebbe tanto voluto scomparire.
"Mi spiace lo stesso. Credimi, sono sincero".
"Allora potresti iniziare con lo stare zitto!" sbottò Paolo con un improvviso  tono adirato. Seguì un lungo minuto di silenzio. A interromperlo fu sempre l'uomo: "Che fai? Davvero non parli più?".
"Eh, tu mi hai detto di starmene zitto... Non ti vado bene neanche in questo modo? Beh, dovresti decidere..." sentenziò risentito l'imbuto bianco. A quanto pareva, i modi bruschi di Paolo dovevano averlo offeso.
"Non dovevi rispondere: era una prova! E poi non fare così... Cerca di comprendermi! Ti dico che la gente pensa che io sia matto! Matto, capisci? Fuori come un balcone...".
"Ma perché?".
"Perché parlo con te! Parlo con un imbuto!" ribatté Paolo. Aprì gli occhi e puntò lo sguardo sgranato sull'oggetto. Non aveva una bocca, eppure sentiva una voce provenire da esso. Era una vocina grossa, proprio come quella risonante di qualcuno che prova a parlare in un imbuto o in un secchio. 
"E che male c'è, scusa? Siamo amici noi in fondo... Oppure no?".
"Sei serio? Gli imbuti normalmente non parlano!" urlò Paolo iniziando a picchiettarsi la testa con le nocche dei pugni chiusi.
"Sembri un po' esaurito, lascia che te lo dica..." commento l'imbuto sospirando pesantemente.
Paolo si alzò dalla sedia. Non ce la faceva più a stare fermo. Doveva sgranchirsi un po' le gambe. Perciò iniziò a percorrere la cucina a grandi passi, andando avanti e indietro. Avanti e indietro. Avanti e indietro.
L'imbuto sospirò di nuovo in maniera rumorosa. Poi parve attendere qualche attimo prima di dire: "Normalmente... Normale di qua, normale di là... Ma che ti importa di quello che pensa la gente? Tu senti di stare bene?".
Paolo si fermò di colpo al centro della cucina. Quelle parole lo innervosirono ulteriormente. Sbraitò: "PARLO CON UN IMBUTO! Parlo con un cavolo di imbuto! E mi chiedi se stia bene? Credo che sia legittimo da parte mia provare a capire se io abbia o meno tutte le rotelle al loro posto! Stupido io che continuo anche a risponderti...".
In preda a un momento di debolezza, Paolo tornò a sedersi al tavolo. Le ginocchia sembravano non reggere più il suo peso. Temeva di poter svenire da un momento all'altro. Meditò se fosse il caso di bere un bicchiere di acqua con dello zucchero. Poi lo assalì una paura tremenda: quella di aprire la credenza e scoprire che magari vi potessero essere altre cose capaci di parlare. Gli passò subito il desiderio dell'acqua con lo zucchero, nonostante il crescente calo di pressione.
"È lui che parla o io che sento le voci?" domandò Paolo a se stesso, chiudendo gli occhi. Puntò i gomiti sul tavolo e tornò a massaggiarsi le tempie.
"Parli sempre di me?" chiese timidamente l'imbuto di plastica.
"Shhhhhhhh!" lo zittì l'uomo. Voleva riflettere. Non riusciva tuttavia a trovare una risposta al dilemma. "Sulle persone come me ci scrivono le barzellette, ti rendi conto?".
"Barzellette?".
"Sì, barzellette... Ad esempio quella del malato di mente che in manicomio parla con lo spazzolino da denti e cerca di apparire sano durante una consulenza con lo psichiatra...".
"Ma io non sono uno spazzolino da denti e comunque non la conosco" disse l'imbuto.
"Non importa. Non ho voglia di raccontartela".
"Prima mi raccontavi tanti aneddoti divertenti. Ti sono diventato all'improvviso tanto odioso?".
"Non provare a fare leva sui sensi di colpa con me, ti avverto!" protestò Paolo irrigidendosi sulla sedia. Gli puntò il dito contro e, gesticolando, iniziò a farneticare: "Vogliamo parlare? Vogliamo parlare? E allora discutiamo proprio del perché io parli con te... Quale potrebbe essere la spiegazione? Dal punto di vista psicologico, si capisce...". Era visibilmente agitato. Non aveva per nulla una bella cera. "Quale messaggio recondito potresti nascondere? Cosa starà cercando di dirmi la mia testa? Vediamo: imbuto, imbuto, imbuto...".
"Secondo me dovresti calmarti. Forse non dovevi bere quel caffè poco fa".
Paolo non si curò di quella considerazione e proseguì con le sue riflessioni: "Mi viene in mente l'imbuto che aveva in testa L'Uomo di latta nella storia del Mago di Oz, certo. Tuttavia non capisco perché quel personaggio dovrebbe avere un nesso con la mia vita...".
"Neanch'io sinceramente" bofonchiò l'imbuto.
"Non mi sei di aiuto" lo apostrofò Paolo. "Oppure rammento che alle scuole elementari, per insegnare a noi bambini la lettera 'i', la maestra usasse spesso il disegno di un imbuto. Sai, la 'i' di imbuto".
"E perché non la 'i' di indiano?".
"Non lo so, ma questo non c'entra. Soffermiamoci sugli imbuti, non sugli indiani. Anche questo ricordo non mi sembra pertinente..." piagnucolò Paolo reggendosi la testa con entrambe le mani. Aveva paura. Paura di ammettere che gli altri avessero ragione. Probabilmente era davvero il caso di rivolgersi a uno specialista.
"C'è anche l'imbuto che tuo nonno usava per travasare il vino nei fiaschi. Magari sei ubriaco" suggerì l'imbuto bianco.
"Ma io sono astemio!" sbottò Paolo. "Oppure sono così ubriaco da credermi sobrio! Sarebbe possibile una cosa del genere?".
"Sono un imbuto io. Non mi sono mai sbronzato".
"È tremendo. Tutto tremendamente tremendo. Cielo! Le alternative sono due: o mi rivolgo a uno psichiatra o continuo a fingere con tutti di non sentirti parlare. Se però così rischiassi poi di degenerare?" confessò Paolo alzandosi di nuovo in piedi. Attraversò la cucina, raggiunse il lavello e aprì il rubinetto dell'acqua fredda. Si sciacquò il viso con gesti lenti e meccanici. Richiuse il rubinetto e si asciugò con uno strofinaccio pulito riposto là accanto. Si voltò e tornò a guardare pensieroso l'imbuto bianco sul tavolo.
"Sto meditando... Sei uno strumento che serve a travasare liquidi poco alla volta, senza sprechi e disastri. Forse dovrei concentrarmi sulla tua funzione".
"Può darsi. Adesso ti va di travasare un po' di acqua nelle bottiglie?" propose l'imbuto bianco con voce un po' annoiata.
"Va bene, ma riempiamo solo tre bottiglie".


Racconto breve di Valentina Mazzella



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sabato 1 giugno 2019

Favolosamente fiabesco il nuovo "Aladdin" della Disney


RECENSIONEFavolosamente fiabesco al punto giusto il nuovo film “Aladdin” di Guy Ritchie. In realtà, considerando il grosso budget investito dalla Disney, sarebbe stato abbastanza grave se il risultato avesse deluso le aspettative. Un prodotto brioso, con scenografie da cartolina ben curate e una fotografia variopinta ricca di colori irresistibili. Il soggetto è ben sviluppato garantendo allo spettatore un accattivante equilibrio di romanticismo, risate, commozione e tensione. Trattandosi di un musical la pellicola è scandita da diversi momenti canori: i balletti dinamici sposano bene il ritmo del film e le canzoni si lasciano apprezzare e canticchiare dal pubblico coinvolto.
Mozza il fiato la bellezza bruna di Naomi Scott nei panni della principessa Jasmine e dei magnifici costumi di scena che le sono stati assegnati. Eppure tale incanto non ci distrae e ci permette ugualmente di riflettere sull'importante messaggio di cui si fa portavoce: anche in questo live-action abbiamo una principessa con gli attributi. Una principessa che non si lascia salvare e basta. Una principessa che studia, che ha ambizioni personali, che non vuol restare zitta in qualità di donna o essere apprezzata esclusivamente per la propria estetica.


Mena Massoud incarna invece a perfezione il volto e l’atteggiamento dell’Aladdin con cui intere generazioni sono cresciute dal 1992 in poi, l’anno della produzione del film d’animazione Disney. Adorabile ladro onesto e straccione abile e furbo allo stesso tempo. Tuttavia è indubbiamente Will Smith a rubare poi la scena a tutti sin dalla sua prima apparizione nel ruolo di Genio. Non solo con una performance eccelsa, ma anche grazie alla storyline secondaria di tutto rispetto che lega il suo personaggio a quello di Dalia, l’ancella di Jasmine interpretata da Nasim Pedrad.


Interessante è notare come la trama riesca a promuovere valori che dovrebbero oggi essere scontati – ma purtroppo non lo sono – senza scadere nel banale o in certi moralismi. Insomma, in conclusione un ottimo live-action che soddisfa i target del film per famiglie della tradizione Disney, strizzando non poco però l’occhio anche alle coppiette affamate di racconti d’amore.

Di Valentina Mazzella  pubblicato sul Napolisera.it in data 2 giugno 2019.

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