RECENSIONE - Si tratta solo di un centinaio di pagine, eppure "La bella estate" (1940) di Cesare Pavese è un romanzo breve di tutto rispetto. Non a caso fa parte di un trittico che con "Il diavolo sulle colline" (1948) e "Tra donne sole" (1949) nel 1950 vinse il Premio Strega.
La storia raccontata è ambientata nella Torino del secondo dopoguerra, quella negli anni Quaranta. Ecco allora che scrittura, atmosfere e costumi ci appaiono molto diversi da quelli odierni, sebbene mai "vecchi". A discapito della positività espressa dal titolo, ogni pagina è impregnata di una forte malinconia. Il lettore è invitato a vivere la quotidianità della protagonista, Ginia, nella stagione del suo passaggio dall'infanzia all'età adulta e ad assaggiarne con lei tutti i bocconi amari che questo comporta. È il racconto di un'estate così come metaforicamente in fondo ogni adolescente ha attraversato nella propria vita.
Ginia ha sedici anni e pensa ingenuamente di essere già "grande" perché vive con il fratello maggiore badando da sola alla casa. Invece nel confronto con la disinibita amica Amelia si renderà conto, pur senza ammetterlo apertamente, di essere impreparata alla vita degli adulti a cui desidera appartenere. L'epoca descritta è quella in cui le ragazze venivano educate alla poca confidenza accordata ai ragazzi e al pudore. Pavese racconta l'emancipazione femminile così come viene percepita inconsciamente da Ginia ed Amelia, come una forma di ribellione al perbenismo e agli altri schemi della società borghese del tempo. Fumare, frequentare caffè, tornare a casa di notte, posare nude, avere amicizie maschili sono tutti modi per loro di rivendicare la propria indipendenza. Ciononostante dietro a tanta apparente spensieratezza non vi è felicità. Solo inquietudine. L'inquietudine tipica dell'adolescenza, ma non solo. L'amicizia fra le due ragazze non è veramente genuina, ma contrassegnata da opportunismo e una celata competizione femminile. La solitudine, la smania di non esser da meno rispetto ad Amelia e il desiderio di sentirsi amata e apprezzata spingeranno Ginia a lasciarsi affascinare da un ambiente quasi bohemien di giovani pittori improvvisati. Vivrà pertanto un primo tormentato amore, forse vissuto solo a senso unico, sciupando tuttavia innocenza ed energie per quella che si rivelerà una delusione.
"La storia di una verginità che si difende" è la definizione che Cesare Pavese scelse per indicare il sunto della sua opera. Ed effettivamente siamo di fronte a un lavoro letterario in cui la componente erotica si avverte forte, eppure con eleganza. Un erotismo che non ha nulla a che fare con la spregiudicatezza, spesso volgare e fine a se stessa, di oggi. In linea con i tempi, quello di Pavese è un erotismo delicato inserito in un clima emotivo troppo spesso grave in cui ogni dettaglio si presta a molteplici interpretazioni. Si pensi anche solo alla tenda che inizialmente aveva ispirato addirittura il titolo del libro. Una tenda che separa la fanciullezza di Ginia dalla sua nuova identità di donna, ma anche il visto dal non visto e il raccontabile da quanto invece è preferibile tacere.
Di Valentina Mazzella
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