RECENSIONE - "Ma tu non sei Ulisse, sei Penelope. Lo vuoi capire, sì o no? Dovresti tessere la tela, non andare alla guerra. Lo vuoi capire, sì o no, che la donna non è un uomo?" sono le parole rivolte a Giovanna, la protagonista di "Penelope alla guerra", dal suo fidanzato. Le più esaustive probabilmente se si desidera intendere pienamente il titolo e il messaggio di fondo che attraversano il libro. Tuttavia il romanzo è sicuramente fra i meno ideologici di Oriana Fallaci, senza che ciò rappresenti un demerito. Semplicemente, rispetto ad altre sue opere, "Penelope alla guerra" si presta moltissimo a essere una lettura meno impegnativa, più creativa e ricreativa. Complice lo stile di scrittura anche un po' acerbo di una Fallaci molto giovane alla pubblicazione del suo primo romanzo di fantasia. Anche se la curiosità di sapere quanto di autobiografico fra le pagine ci sia difficilmente non seduce qualsiasi lettore affezionato alla scrittrice fiorentina.
Del resto Oriana Fallaci era una donna audace, cinica eppure romantica quanto Giò/Giovanna, personaggio che per molti potrebbe tranquillamente coincidere con la protagonista senza nome di "Lettere a un bambino mai nato", edito all'incirca dieci anni dopo. Sebbene sia stato pubblicato per la prima volta nel 1962, “Penelope alla guerra" si rivela una storia moderna per la schiettezza dei rapporti e le tematiche affrontate. Ci riportano negli anni Sessanta di tanto in tanto l'assenza dei cellulari e i riferimenti alla Seconda Guerra Mondiale necessari nel racconto dell'incontro di una Giò appena dodicenne con un americano, Richard. La storia raccontata è fondamentalmente una vicenda d'amore. Per la precisione un intreccio di vicende amorose che si lasciano leggere con coinvolgimento. Una giovane sceneggiatrice italiana viene inviata per due mesi a New York per trovare idee e scrivere un soggetto ambientato nella Grande Mela. Nonostante un fidanzato a Roma, qui Giò andrà alla ricerca di un fantasma, il soldato statunitense che durante la guerra si era nascosto in casa sua dai Tedeschi quando lei era poco più che una ragazzina. Riesce a scovarlo, a incontrare questo fantomatico Richard Baline, per anni creduto morto e che anni addietro con i suoi racconti era riuscito a farla innamorare del mito dell'America. Tra i due nasce una relazione, ma non tutto torna.
Se Giò appare in certe situazioni troppo testarda, affascinano la psicologia, la fragilità e i silenzi di Richard. A intervalli fanno sorridere le considerazioni di Martine, l'amica di Giò. Capitolo dopo capitolo, si ha voglia di sciogliere la matassa dei punti interrogativi in cui di volta in volta il lettore inciampa.
La "morale" della storia - se di morale è concesso parlare - è la delineazione di un profilo di donna che incarna il concetto di femminismo che Oriana Fallaci ha continuato a proporre senza remore fino alla fine. Un prototipo di donna che lei stessa ha incarnato: una donna che è forte non perché vuole essere uomo, come ingenuamente Giovanna ripete a più riprese. Una donna che è forte non perché può fare a meno dell'uomo e dell'amore. Una donna che è forte perché non ha bisogno di essere protetta e può permettersi di scoprire l'uomo nelle sue debolezze. Una donna che è forte perché resta donna e che nel suo restare donna decide di vivere. Decide di affrontare la vita. Una donna che è Penelope, non un Ulisse in gonnella. Sempre Penelope, ma al pari di Ulisse posa la tela e sceglie di andare alla ricerca di se stessa anche attraversando l'oceano.
Di Valentina Mazzella
Copyright © 2019 L'albero di limonate by Valentina Mazzella. All rights reserved
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