giovedì 19 dicembre 2019

"Fili d'innocenza", il romanzo dai valori autentici di Salvatore Esposito


RECENSIONE - Un prisma luminoso. Sicuramente questa la metafora che calza al pennello al romanzo "Fili d'innocenza" dell'autore esordiente Salvatore Esposito per la pluralità delle sfaccettature e degli spunti di riflessione che la sua narrazione offre ai lettori. Non a caso l'opera è stata insignita della menzione d'onore al concorso letterario Premio Città di Grosseto 2019. Una storia dai contenuti autentici che racconta in maniera semplice e limpida il percorso di crescita del protagonista e dei suoi due fratelli. Il rapporto di Riccardo, voce narrante, con Marcello e  Nino descrive pagina dopo pagina una relazione alle volte di gelosia e competizione, ma soprattutto di solidarietà e complicità che ricostruisce in modo genuino e veritiero la dualità di un comune legame fra fratelli. "Fili d'innocenza" è in primis un romanzo di formazione in cui i ragazzi non vengono educati esclusivamente dai genitori perché ambientato in un tempo sociale in cui la collettività aveva ancora a cuore la responsabilità verso i più giovani.

La struttura del libro si presenta come una raccolta di episodi sparsi. Il lettore inizia a leggere incuriosito dall'incipit della trama, guidato dalla suspense. Ci si ritrova invece molto presto assorbiti dal piacere della lettura dei vari ricordi anche laddove il racconto sembri fine a se stesso. In ogni capitolo ci si sente parte della famiglia di Riccardo, quasi si sia seduti a tavola con tutti i suoi membri durante i diverbi. "Fili d'innocenza" è anche una storia corale quanto basta perché si assapora la realtà del paese di ambientazione attraverso i vari personaggi che interagiscono con i tre giovani: le zie, i vicini di casa, i compagni di classe, i gestori delle botteghe... Tutti peculiari e riconoscibili. La narrazione riserva uno spazio prezioso ai sentimenti, evitando tuttavia sentimentalismi stucchevoli. Non tace sui primi amori e affronta il tema della scoperta del corpo e della sessualità senza tabù e morbose strumentalizzazioni. Il tutto con estrema delicatezza ed eleganza, puramente per descrivere le esperienze impacciate dei ragazzi che si affacciano alla vita.

In "Fili d'innocenza" c'è Napoli con i suoi inconfondibili luoghi e la sua vivace lingua parlata. C'è il profilo della cittadina di Sacromonte che, nonostante il nome di fantasia, si fa emblema e portavoce di tutti i paesi vesuviani. Il romanzo offre in sottofondo un nitido spaccato della società italiana degli anni Sessanta e Settanta. Non trascura il divario fra Nord e Sud, permettendo di percepire la Questione Meridionale come una ferita aperta e bruciante attraverso alcune vicende infelici degli stessi personaggi. Pone l'accento sulle Lotte operaie degli stessi anni e sul problema della disoccupazione. Ed è forse proprio questo retroscena storico-culturale così ben definito a rendere paradossalmente i fatti narrati di grande attualità. I protagonisti stessi sono attuali proprio perché vivono una ricerca dell'io e della strada da intraprendere nella vita. Attraversano lo smarrimento che appartiene ai giovani di tutte le generazioni. Vi è in ciò una punta di universalità, ingrediente indispensabile in ogni opera valore.

Recensione di Valentina Mazzella, pubblicata sul Napolisera.it in data 18 dicembre 2019.


Copyright © 2019 L'albero di limonate by Valentina Mazzella. All rights reserved

venerdì 13 dicembre 2019

"Il Maestro e Margherita" al Teatro Mercadante: il Bulgakov un po' dark di Andrea Baracca



RECENSIONE - "Liberati dal maligno, gli uomini sono rimasti maligni" è l'avvilente citazione disfattista del "Faust" di Goethe che impera su una parete della scenografia dello spettacolo "Il Maestra e Margherita" in scena al Teatro Mercadante di Napoli fino a domenica 15 dicembre. Una rappresentazione densa, carica e passionale con una buona dose di estetica dark. La sceneggiatura di Letizia Russo ha dato vita a un adattamento notevole che in tre ore riesce a condensare la forza e la molteplicità di uno dei capolavori più eclettici della letteratura del Novecento, l'omonimo romanzo di Michail Bulgakov. L'esorbitante numero di ben 146 personaggi è stato opportunamente ridotto a una manciata di personaggi fondamentali interpretati egregiamente da un cast di eccellenza: Michele Riondino, Francesco Bonomo, Federica Rosellini, Giordano Agrusta, Carolina Balucani, Caterina Fiocchetti, Michele Nani, Alessandro Pezzali, Francesco Bolo Rossini, Diego Sepe Oskar Winiarski. Chi ha letto il libro sa che si tratti di una narrazione dotata di innumerevoli complessità e sottotrame.



È principalmente la storia dell'incontro di Satana con uno scrittore precipitato nella depressione a causa dell'infelice critica letteraria che dilania un'opera che ha scritto a proposito di Ponzio Pilato, del processo a Gesù e dei fatti immediatamente successivi alla crocifissione. Per tale sofferenza lo scrittore finisce in manicomio e si fa chiamare il Maestro. Nel frattempo Satana incontra altri personaggi come un poeta che il Maestro conoscerà in clinica e soprattutto Margherita, la donna dello stesso Maestro che non sa che lo scrittore sia stato internato e non rinuncia ad avere notizie dell'amante scomparso. Di fatto la storia è ambientata storicamente nel pieno regime sovietico che promuoveva l'ateismo di Stato. Tuttavia, per ovvie esigenze di copione, Letizia Russo rinuncia alla feroce critica politica di Bulgakov per focalizzare l'attenzione su altri aspetti.


Ecco allora che, sotto la sapiente regia di Andrea Baracco, il pubblico assiste alla struggente storia d'amore di Margherita e il Maestro. Ha modo di riflettere sugli innumerevoli temi più filosofici e storico-teologici, sui vari richiami ai Vangeli e sulla stessa natura umana che sembra protesa al bene, ma è forse marcia anche senza bisogno dello zampino di Satana. La scenografia grigia, i giochi di luce, i costumi e le musiche regalano perfettamente la sensazione di disagio asfissiante, angoscia e pietà che l'opera di Bulgakov ricostruisce pagina dopo pagina. Come Satana, "Il Maestro e Margherita" è una voce sibillina. Insinua il dubbio nella coscienza dello spettatore, forse rendendolo più umano. Ci si chiede cosa si sarebbe disposti a fare per raggiungere i propri obiettivi, fino a quale limite si sarebbe disposti a spingersi. Si torna a casa mettendo in discussione ogni certezza, le proprie verità e se stessi. Con meno sicurezze, ma di certo più ricchi.

Recensione di Valentina Mazzella, pubblicata sul Napolisera.it in data 12 dicembre 2019.

Fotografia di Guido Mencari | www.gmencari.com

Copyright © 2019 L'albero di limonate by Valentina Mazzella. All rights reserved

mercoledì 4 dicembre 2019

"La panne” di Dürrenmatt al Teatro Mercadante: un’attenta analisi della verità indefinita


RECENSIONE - Quante volte durante l'esistenza ci capita di pensare che certi avvenimenti, apparentemente senza alcun nesso concreto fra loro, siano in realtà correlati da un significato più profondo che esula dalla tangibilità? È una sensazione frequente che sfugge alla razionalità ed è su questa riflessione che spinge a meditare il pubblico "La panne" di Friedrich Dürrenmatt. Un'opera suggestiva nata come romanzo nel 1956 e in questi giorni riproposta sul palcoscenico del Teatro Mercadante di Napoli fino a domenica 8 dicembre. L'adattamento e la regia di Alessandro Maggi portano a compimento l'obiettivo: affrontare il tema indefinito della verità.


Trampolino di lancio è la storia di un rappresentante di commercio, Alfredo Traps, a cui va in panne l'automobile a molti chilometri da casa. Trova ospitalità presso un anziano giudice in pensione che condivide con dei vecchi colleghi la passione per un gioco bizzarro: trascorrono le serate fingendo di processare personaggi storici. Entusiasmati dall'arrivo di Traps, i signori lo invitano a partecipare alla recita ludica interpretando l'imputato. La scenografia essenziale, il grigiore degli eleganti costumi di scena e le angoscianti risate sincrone degli uomini di legge contribuiscono a lievitare la suggestione degli spettatori. Complice la maestrale interpretazione del cast composto da Nando Paone, Vittorio Ciorcalo, Patrizia Di Martino, Stefano Jotti, Alberto Fasoli e Giacinto Palmarini. Ecco allora che Alfredo Traps viene indotto a un'attenta autoanalisi di coscienza che lo porterà a reputarsi responsabile della morte del suo titolare. Quante volte ci capita di odiare una persona a tal punto da desiderarne la morte? Anche senza agire mai, in cuor proprio si è già davvero degli assassini? Si è responsabili delle proprie azioni solo quando c'è l'intenzione? Uno spettacolo che grazie alla sensibilità di Maggi riesce a smuovere la coscienza e a interrogare l'intimità più segreta. Regala un nuovo sguardo sulla realtà, meno miope e un po' più triste. Esistono doppie verità che spronano l'uomo a interrogarsi sulle prospettive morali, sulla Legge e sui retroscena che le comuni indagini giuridiche non possono penetrare. Sembra allora di essere condannati al caos, eppure un filo di senso che lega e illumina tutto forse esiste, sebbene non se ne abbiano le prove.


Recensione di Valentina Mazzella, pubblicata sul Napolisera.it in data 3 dicembre 2019.

Copyright © 2019 L'albero di limonate by Valentina Mazzella. All rights reserved

venerdì 15 novembre 2019

"Eva Luna" di Isabel Allende: un marasma di personaggi per una buona storia


RECENSIONE - Una volta che si ha il desiderio di recensire il libro "Eva Luna" di Isabel Allende, trovo che non sia semplice decidere da dove iniziare. C'è davvero tanto da dire perché tanto viene raccontato nelle pagine di questo romanzo che si incastra a perfezione nella tradizione spagnola del genere picaresco. Si tratta infatti, per i capitoli che riguardano la protagonista Eva Luna, dell'autobiografia di un personaggio fittizio nato in condizione indigenti, rimasto orfano e che cresce affrontando negli anni una serie di vicissitudini da cui riesce ogni qualvolta a uscire indenne grazie alla sua furbizia da "pícaro", ossia da briccone. Un'analisi che calza a pennello per descrivere la storia di Eva Luna che Isabel Allende alterna alla narrazione della vita di Rolf Carlé, un giovane austriaco che dall'altra parte del mondo vive esperienze completamente diverse da quelle di Eva. Episodi macabri e di violenza lo segnano, senza tuttavia condizionare la sua coscienza. Eva Luna e Rolf Carlé conducono due esistenze separate che corrono come binari paralleli per gran parte del libro, ma destinate a intrecciarsi nel finale.


Non importa che l'epilogo sia anche abbastanza prevedibile. Il romanzo riesce a coinvolgere perché pullula di personaggi e situazioni bizzarre a cui ti affezioni o che solleticano irrimediabilmente la curiosità del lettore. Difficile non apprezzare la fierezza di Consuelo, la madre di Eva, o non rimanere sbigottiti dinanzi alle stramberie del vecchio Professor Jones. Complicato è riuscire a non odiare Lukas Carlé, il padre di Rolf, non subire il fascino di un personaggio orgoglioso come Huberto Naranjo, non provare tenerezza per il buon Riad Hilabi. E poi quella matta della madrina, Elvira che dorme in una bara, l'inconsolabile Zulema e tanti altri personaggi che Eva incontra durante il suo percorso e restano nel bene o nel male nel cuore o nella memoria del lettore.

"Eva Luna" è dunque un po' una storia corale. È un romanzo di formazione che si prodiga a narrare la maturazione di una bambina che gli eventi rendono una donna consapevole di sé, forte e autonoma. "Eva Luna" è tante cose: è anche un libro che col pretesto delle peripezie di una ragazzina, svela e denuncia i retroscena storici di un periodo politico critico nel Sudamerica. È una storia capace di trattare argomenti importanti come il valore dell'alfabetizzazione e temi delicati come la transessualità attraverso l'adorabile personaggio di Melecio/Mimì. Ci sono anche storie nella storia perché Eva Luna viene spesso presentata come una moderna Shahrazād de "Le mille e una notte". È un romanzo di avventura e spesso apparentemente potrebbe sembrare di perdersi in questo marasma di nomi, luoghi, spostamenti e cambiamenti. Eppure non accade, sospinti in avanti pagina dopo pagina dal corso dai fatti narrati proprio come accade a Eva Luna. Non ci si abbatte e si guarda negli occhi il mutamento con audacia e coraggio, senza voltarsi indietro.

Di Valentina Mazzella


Copyright © 2019 L'albero di limonate by Valentina Mazzella. All rights reserved

venerdì 1 novembre 2019

La donna angelo del focolare oggi: lo stigma sociale della casalinga


Lo so, non è marzo e nessuno regala mimose gialle al gentil sesso. Eppure in questo periodo meditavo lo stesso sulla condizione della donna. Non c’è bisogno ogni volta di attendere l’ennesimo caso di cronaca eclatante o la ricorrenza di una festa commerciale per farlo. A voi capita mai di soffermarvi a riflettere sul ruolo della donna nella sua evoluzione storica sotto il profilo psicologico? Sono innumerevoli i concetti che si possono ribadire in merito senza apparire brillanti quanto a originalità, ma è tutto vero.

Ad esempio ricordare che per secoli la donna è stata purtroppo costretta a un ruolo subordinato e di sottomissione all’interno di società patriarcali che la volevano appendice di un uomo. Quasi fosse un bene privato del padre, dei fratelli o del marito. Lo testimoniano leggi assurde come il delitto d’onore ancora contemplato ammissibile fino al 1981 e alla percezione dello stupro non come reato contro la persona, ma “contro la morale e il buon costume” fino al 1996. Del resto gli strascichi di questa mentalità maschilista e possessiva emergono ancora negli infiniti e attualissimi episodi di stalking e femminicidio, denunciati e non.


Tutto sommato ad oggi le donne hanno anche finalmente vinto molteplici battaglie. Sono più libere, possono studiare e lavorano. Almeno in Occidente viene loro legalmente riconosciuta la parità di genere. Le pari opportunità e le cosiddetta quote rosa crescono negli ambiti più variegati. È assolutamente anche vero che ostacoli e disparità proseguono a regalare quotidiane grane. A partire dal retaggio sessista nel linguaggio comune alle più ingiuste differenze di stipendio fra uomo e donna. Però, abbracciando l’ottimismo, si spera che fra cinquant’anni tanti nuovi traguardi saranno stati raggiunti.

Tuttavia dietro le quinte accade dell’altro. Un altro fenomeno sibila e lascia l’amaro in bocca. Delle donne sottomesse e delle donne in carriera si parla spesso. A proposito delle mamme lavoratrici si accenna sempre prestando attenzione a non ferire sensibilità alcuna perché se non usi le parole adatte sembra che si voglia colpevolizzare la categoria per aver scelto, giustamente, di alzarsi le maniche. Un po’ di meno si discute invece delle donne che nel 2019 scelgono di essere semplicemente moglie e madre. E non importa se la signora in questione sia magari pure laureata, abbia alle spalle fior di master e abbia in passato sempre lavorato. Oggi per una donna, soprattutto se giovane e nubile, affermare in pubblico che nella propria scala di valori si dia più importanza al desiderio di essere o divenire moglie e madre è altamente impopolare. Inevitabilmente si verrà guardate come una povera disgraziata.


Qualcuno dei presenti magari potrebbe mormorare: “Va be’, ognuno poi è felice a modo suo”, ma solo per cortesia o per essere politicamente corretti. Ciò accade perché tacitamente, pur senza ammetterlo, sempre più di frequente la donna scivola verso una nuova schiavitù che vive l’estremo opposto. Quasi che di questi giorni una giovane donna debba vergognarsi nel dire di avere vocazione alla famiglia perché tale obiettivo viene giudicato come un’aspirazione retrograda e irragionevole senza mezze misure. E – di nuovo – non importa quanto si abbia studiato o quanto si abbia lavorato. In nome della libertà tanto decantata, quella che dovrebbe essere una scelta fra le tante possibili riceve un bollino nero. Sebbene – si badi bene – finalmente oggi in molti contesti possa essere una scelta, non più un’imposizione come in passato. Eppure lo stigma sociale resta. È quello della casalinga giudicata a priori poco evoluta, remissiva e meno in gamba nel complesso. Sebbene non necessariamente la realtà debba coincidere con il preconcetto.

Fra l’altro allo stesso modo altre occhiate di disapprovazione spettano da sempre anche all’uomo che sceglie di fare il “mammo” a casa mentre la partner lavora. E non interessa a nessuno che magari alla coppia in questione possa star bene così. In breve perseverano nuove catalogazioni in decisioni di serie A e decisioni di serie B. Non si riesce ad accettare che ogni individuo possa per sé preferire uno stile di vita diverso da quello proposto dai presunti standard del successo e dalla pressione sociale. Accade così che la donna oggi non sia ugualmente libera. Questa volta non per il sessismo, ma perché ha appeso al chiodo lo stereotipo dell’angelo del focolare e si costringe non troppo di rado a indossare quello dell’emancipata a tutti i costi. Nè più e nè meno. E si stende pertanto il tappeto all’interrogativo più grande: quando la donna sarà veramente libera di essere una persona e non più la proiezione di un modello predefinito? Chissà, ma la consapevolezza è il primo passo per affrontare il problema.

Di Valentina Mazzella, pubblicato sul Napolisera.it in data 1 novembre 2019.


Copyright © 2019 L'albero di limonate by Valentina Mazzella. All rights reserved

venerdì 25 ottobre 2019

"La Tempesta": lo Shakespeare pirandelliano di Luca De Fusco al Teatro Mercadante


RECENSIONE – La stagione del Teatro Mercadante di Napoli quest’anno si è aperta in grande stile con la rappresentazione de “La tempesta” di Shakespeare. Con la zelante regia di Luca De Fusco lo spettacolo sarà in scena fino al 10 novembre, proponendo al pubblico un capolavoro del XVII secolo con il giusto pizzico di Novecento che ne ravviva il sapore senza tradirlo.
Sul palcoscenico ammiriamo un profondo Shakespeare pirandelliano con cui vengono rievocati immagini e miti del mondo più squisitamente moderno. Il protagonista Prospero viene presentato come una sorta di burattinaio che tira con la sua magia i fili dei destini di tutti i personaggi. I suoi poteri derivano dalla conoscenza e il suo antro da mago non a caso è una biblioteca. In una sorta di nuova Isola Che Non C’è, Prospero è scrittore delle vicende, nonché autore della tempesta che dà avvio al racconto.

                  

Egregia è la scenografia che mescola elementi fisici presenti sul palco con proiezioni finalizzate a intrecciare le arti del teatro e del cinema. I costumi di scena volutamente appartengono alle più disparate epoche e a diversi contesti. Non c'è stranezza nel vedere una coppia con indosso tenute da tennis ammirare una seducente Marilyn. Sublime l’interpretazione di Eros Pagni, quanto quella della magnifica Gaia Aprea del cui talento è impossibile non innamorarsi a ogni rappresentazione. In quest’occasione si è addirittura destreggiata fra due personaggi dalle sembianze maschili, Ariel e Calibano, che altro non sono che due facce di un’allegorica dualità. Lo spettatore viene così catapultato nel buio del teatro in una piccola preziosa esperienza di metateatro in cui tutto ciò che è ammirevole e meraviglioso come Miranda si contrappone a ciò che è losco e basso. Poi Prospero si rivolge alla platea per liberare con un applauso gli attori e l’ultimo grande incantesimo si spezza riportando i presenti alla realtà.

Di Valentina Mazzella, pubblicato sul Napolisera.it in data 25 ottobre 2019.

Copyright © 2019 L'albero di limonate by Valentina Mazzella. All rights reserved

lunedì 21 ottobre 2019

"La grande magia” di Eduardo De Filippo incanta il pubblico al Teatro San Ferdinando


RECENSIONE – «Ho voluto dire, che la vita è un giuoco, e questo giuoco ha bisogno di essere sorretto dall’illusione, la quale a sua volta deve essere alimentata dalla fede. Ed ho voluto dire che ogni destino è legato al filo di altri destini in un giuoco eterno: un gran giuoco del quale non ci è dato di scorgere se non particolari irrilevanti»: le parole dello stesso Eduardo sono più che mai indispensabili in questo occasione se si desidera cogliere al massimo quella che è un po’ la morale dello spettacolo “La grande magia”. L’opera tratta dal gruppo “Cantate dei giorni dispari” di De Filippo è in scena al Teatro San Ferdinando di Napoli fino al 10 novembre con la regia di Lluis Pasqual.
È la storia di un illusionista che durante un numero di magia fa sparire una signora del pubblico per aiutarla, dietro pagamento, a scappare con l’amante sotto al naso del marito estremamente geloso. Per evitare problemi il mago riuscirà a convincere il coniuge tradito a credere possibile che sua moglie si trovi in una scatola. Basterebbe aprirla per far ricomparire la donna, ma solo se si ha fiducia nella fedeltà di lei e fede nel giuoco. La decisione è ardua: meglio l’idea di una moglie fedele chiusa in una scatola che quella di una adultera che ci ha abbandonati?
La recitazione degli attori è notevole. Del resto il cast vanta nomi di valore come Nando Paone, Claudio Di Palma, Alessandra Borgia, Gino De Luca, Angela De Matteo, Gennaro Di Colandrea, Luca Iervolino, Ivana Maione, Francesco Procopio, Antonella Romano, Luciano Saltarelli e Giampiero Schiano. Le musiche sono eseguite dal vivo da Dolores Melodia e Raffaele Giglio che coinvolgono con maestria la platea. Suggestiva è invece la scenografia nelle scene del numero di prestigio durante le quali un gioco di specchi, luci e riflessi proietta lo spettatore in una dimensione irreale.
“La grande magia” è senz’altro un soggetto molto pirandelliano per le tematiche e l’ambientazione scelte. Non a caso nel ’48 non fu accolto con calore dal popolo che negli anni successivi alla guerra era affamato di storie di povertà e non tanto di intrighi della borghesia. Ciononostante resta una vicenda ancora oggi di grande attualità, in cui tutto è teso a riflettere sulla propensione dell’essere umano a preferire spesso le proprie convinzioni false a verità scomode che feriscono. È una commedia profonda, filosofica quanto basta, che rivela l’amarezza del rapporto fra illusione e realtà. 
Di Valentina Mazzella, pubblicato sul Napolisera.it in data 21 ottobre 2019.
Copyright © 2019 L'albero di limonate by Valentina Mazzella. All rights reserved

mercoledì 2 ottobre 2019

"Penelope alla guerra" e il diritto della donna di perdersi per mare come Ulisse


RECENSIONE - "Ma tu non sei Ulisse, sei Penelope. Lo vuoi capire, sì o no? Dovresti tessere la tela, non andare alla guerra. Lo vuoi capire, sì o no, che la donna non è un uomo?" sono le parole rivolte a Giovanna, la protagonista di "Penelope alla guerra", dal suo fidanzato. Le più esaustive probabilmente se si desidera intendere pienamente il titolo e il messaggio di fondo che attraversano il libro. Tuttavia il romanzo è sicuramente fra i meno ideologici di Oriana Fallaci, senza che ciò rappresenti un demerito. Semplicemente, rispetto ad altre sue opere, "Penelope alla guerra" si presta moltissimo a essere una lettura meno impegnativa, più creativa e ricreativa. Complice lo stile di scrittura anche un po' acerbo di una Fallaci molto giovane alla pubblicazione del suo primo romanzo di fantasia. Anche se la curiosità di sapere quanto di autobiografico fra le pagine ci sia difficilmente non seduce qualsiasi lettore affezionato alla scrittrice fiorentina.



Del resto Oriana Fallaci era una donna audace, cinica eppure romantica quanto Giò/Giovanna, personaggio che per molti potrebbe tranquillamente coincidere con la protagonista senza nome di "Lettere a un bambino mai nato", edito all'incirca dieci anni dopo. Sebbene sia stato pubblicato per la prima volta nel 1962, “Penelope alla guerra" si rivela una storia moderna per la schiettezza dei rapporti e le tematiche affrontate. Ci riportano negli anni Sessanta di tanto in tanto l'assenza dei cellulari e i riferimenti alla Seconda Guerra Mondiale necessari nel racconto dell'incontro di una Giò appena dodicenne con un americano, Richard. La storia raccontata è fondamentalmente una vicenda d'amore. Per la precisione un intreccio di vicende amorose che si lasciano leggere con coinvolgimento. Una giovane sceneggiatrice italiana viene inviata per due mesi a New York per trovare idee e scrivere un soggetto ambientato nella Grande Mela. Nonostante un fidanzato a Roma, qui Giò andrà alla ricerca di un fantasma, il soldato statunitense che durante la guerra si era nascosto in casa sua dai Tedeschi quando lei era poco più che una ragazzina. Riesce a scovarlo, a incontrare questo fantomatico Richard Baline, per anni creduto morto e che anni addietro con i suoi racconti era riuscito a farla innamorare del mito dell'America. Tra i due nasce una relazione, ma non tutto torna.


Se Giò appare in certe situazioni troppo testarda, affascinano la psicologia, la fragilità e i silenzi di Richard. A intervalli fanno sorridere le considerazioni di Martine, l'amica di Giò. Capitolo dopo capitolo, si ha voglia di sciogliere la matassa dei punti interrogativi in cui di volta in volta il lettore inciampa.
La "morale" della storia - se di morale è concesso parlare - è la delineazione di un profilo di donna che incarna il concetto di femminismo che Oriana Fallaci ha continuato a proporre senza remore fino alla fine. Un prototipo di donna che lei stessa ha incarnato: una donna che è forte non perché vuole essere uomo, come ingenuamente Giovanna ripete a più riprese. Una donna che è forte non perché può fare a meno dell'uomo e dell'amore. Una donna che è forte perché non ha bisogno di essere protetta e può permettersi di scoprire l'uomo nelle sue debolezze. Una donna che è forte perché resta donna e che nel suo restare donna decide di vivere. Decide di affrontare la vita. Una donna che è Penelope, non un Ulisse in gonnella. Sempre Penelope, ma al pari di Ulisse posa la tela e sceglie di andare alla ricerca di se stessa anche attraversando l'oceano.

Di Valentina Mazzella


Copyright © 2019 L'albero di limonate by Valentina Mazzella. All rights reserved

giovedì 19 settembre 2019

"Il re leone" di Jon Favreau: ed è subito voglia di safari



RECENSIONESi conferma una buona firma alla regia quella di Jon Favreau che, dopo il successo de “Il libro della giungla” del 2016, anche questa estate con “Il re leone” dimostra quanto gli scenari selvatici di questo genere di prodotto siano davvero pane per i suoi denti. Guardi il film ed esci dalla sala con l’irrefrenabile desiderio di partire per un safari in Africa, tasche permettendo. La pellicola è essenzialmente una gioia per gli occhi. La fotografia è sensazionale. Gli effetti di grafica computerizzato valgono tutto il budget Disney. Il doppiaggio italiano è accurato e le parti musical sono notevoli. Straordinario è prestare attenzione al fatto che nel film gli animali vivano le varie situazioni senza mai assumere atteggiamenti umani come nel cartone animato del 1994. Se si guardasse “Il re leone” senza audio, sarebbe un po’ come assistere a un documentario per l’ottimo aspetto realistico conferito ai personaggi in quanto animali. Per il resto si tratta ancora di una vicenda che diverte e commuove in entrambi i sensi fino alle lacrime, laddove gli sceneggiatori hanno scelto di attenersi molto alla storia del ’94 con grande soddisfazione degli amanti delle trasposizioni fedeli il più possibile.



Di Valentina Mazzella, pubblicato sul Napolisera.it in data 18 settembre 2019.


Copyright © 2019 L'albero di limonate by Valentina Mazzella. All rights reserved

giovedì 22 agosto 2019

"Napoli velata”: un film fumoso sui misteri dell’esoterismo partenopeo e quelli della vita



RECENSIONE – Un film fumoso, dalla trama intricata. Enigmatico. Probabilmente volutamente criptico. È quanto in sintesi si può dire a proposito di “Napoli velata”, l’ultima pellicola del regista Ferzan Özpetek. Al termine della proiezione sono tanti i dubbi e le perplessità che assaliscono lo spettatore che, di primo acchito, prova la desolante sensazione di non aver forse capito esattamente tutto. Forse gli sarà sfuggito qualche particolare, prova a giustificarsi mestamente durante i titoli di coda. Ciononostante sente di esser stato positivamente stordito dalle immagini, dai colori e dal folclore in cui “Napoli velata” l’ha immerso per due ore. Sensazioni di trasporto, confusione e angoscia attraversano tutta la storia senza abbandonare né i personaggi e né il pubblico.

La  città di Napoli sullo sfondo si rivela più scenografica che mai. Bellissima e ammaliante, conferma di esser nata per il cinema e il teatro. I suoi miti, le tradizioni e le superstizioni che la popolano non rinunciano al loro fascino. Seducono e incuriosiscono passanti, scettici e incauti senza alcuna distinzione. Ed è forse qui che la trama contorta e il carisma dell’esoterismo partenopeo si incontrano in un noir irrisolto. “Napoli velata” si articola superficialmente come un giallo, ma non desidera guidare lo spettatore verso un’univoca soluzione del delitto. Preferisce abbandonarsi al mistero perché il rompicapo vissuto dai protagonisti diventa in questo modo il doppio più palpabile di quei misteri trascendentali che abitano la dimensione dell’occultismo popolare. L’astrusità della scomparsa di Andrea finisce con l’essere quasi una proiezione contemporanea della leggenda napoletana secondo cui Raimondo Di Sangro, settimo Principe di Sansevero, avrebbe reso cieco l’artista Giuseppe Sanmartino dopo la realizzazione del Cristo velato, in modo che non avesse più l’opportunità di riprodurne una copia. “Non è vero, ma ci credo” potrebbe essere un po’ il messaggio che fra una sequenza e l’altra del film si percepisce: non crediamo alle medium, ma provar non nuoce. Non crediamo ai complotti, ma nutriamo poca fiducia verso coloro che avvertiamo ambigui e potenzialmente ipocriti. Non crediamo ai fantasmi, ma alle volte tutto sembra possibile e così via.



sostegno di questa vaporosa interpretazione, tutto il film è attraversato dalle immagini intriganti di occhi e veli. Immagini ora solo evocate, immagini ora mostrate… ma non importa. Costituiscono in ogni caso delle costanti nella pellicola che non possono essere state inserite a caso senza un significativo contenuto recondito. Dall’occhio della bambina all’amuleto del padre, dagli occhi di Andrea a quelli di Sanmartino, dal velo della Figliata dei Femminielli  a quello dell’utero in bassorilievo artistico, dal velo del Cristo velato al velo che nasconde la verità che la pellicola prova a raccontare. Se a tutto ciò si aggiungono le citazioni cinematografiche che citano Hitchcock o le scene nel Museo Archeologico che portano alla mente “Viaggio in Italia” di Rossellini (1954), scopriamo che “Napoli velata” sceglie di giocare investendo su una grossa puntata. E poiché purtroppo la sua sceneggiatura non  risulta all’altezza dei propositi concettuali, finisce col rivelarsi un film interessante, ma imperfetto e pretenzioso con eccessive aspettative intellettuali. Una pellicola che nasce come thriller e inciampa come commedia.

Il soggetto intriga, ma è stato sviluppato senza curare troppo i dettagli. Ne deriva pertanto una storia con troppe lacune disseminate lungo il percorso dei personaggi (tanto per dirne una: alla fine chi ha messo davvero a soqquadro l’appartamento di Adriana?) e condonare tutti i vuoti con l’ambiguità della verità non basta. Le sequenze erotiche all’inizio del film sono state inutilmente lunghe e a tratti volgari, ma soprattutto la loro natura esplicita poco funzionale allo sviluppo della trama. Riflettendo su tutta la vicenda narrata, la devota ossessione della protagonista appare forzata in seguito a un banale incontro di sesso occasionale. Non vogliamo film di donne a tutti i costi pudiche e riservate, ma raccontare uno slancio emotivo costruito quasi solo sulla dimensione carnale sembra far perdere spessore e credibilità alla protagonista. Allo stesso modo in eccesso appare l’inserimento del suo passato drammatico. “Napoli velata” diventa in questi termini un minestrone con troppa carne a cuocere in cui niente viene cotto a puntino.


Altra carenza del film è il non aver approfondito la dimensione più sacra della città partenopea. La complessità del connubio sacro e profano viene messa da parte per arginare la prima dimensione in un’unica scena in cui Adriana, camminando, si ferma a osservare un crocifisso. Una scelta che ha appiattito la natura tortuosa della cultura nostrana. Tuttavia non ci stendiamo sopra un velo pietoso perché le molteplici pecche di questa pellicola vengono perdonate grazie all’eleganza di alcune maestrali sequenze di macchina e alla performance di un cast di attori rinomati che annovera Giovanna Mezzogiorno, Alessandro Borghi, Anna Bonaiuto, Peppe Barra, Lina Sastri, Luisa Ranierie Isabella Ferrari. In conclusione un film da guardare senza troppe pretese, con lo stesso spirito di curiosità e la voglia di mettersi alla prova con cui ci si approccia a un rebus.



Di Valentina Mazzella, pubblicato sul Napolisera.it in data 24 gennaio 2018.

Copyright © 2019 L'albero di limonate by Valentina Mazzella. All rights reserved

venerdì 16 agosto 2019

"Le nonne" di Doris Lessing: l'amarezza della vita in tre racconti



RECENSIONE - Vi è mai capitato di avere l'impressione di star subendo delle ingiustizie da parte della vita? Magari per puro suo sadico accanimento o a causa della pressione sociale e di altre circostanze analoghe... Oppure peggio: avete mai avuto la sensazione di star vivendo una vita che non sia la vostra? Sono forse proprio questi i disagi umani che Doris Lessing esplora attraverso i tre racconti raccolti nel libro "Le nonne".

Il primo dà il titolo all'opera, "Le nonne" per l'appunto. Nel 2013 la regia di Anne Fointane ne ha tratto anche il film "Two mothers". La vicenda è di per sé pruriginosa perché narra di due amiche,  delle donne adulte, che si lasciano travolgere da una discutibile passione che ciascuna delle due condividerà per anni con il figlio dell'altra e viceversa sin dall'epoca in cui i ragazzi sono solo dei sedicenni. Eppure la Lessing racconta il tutto con adeguato distacco, senza puntare il dito o far pesare un giudizio morale sui fatti. Soprattutto lo fa con eleganza, senza soffermarsi su particolari erotici. Solo sulle dinamiche relazionali e psicologiche, per quanto in maniera intenzionalmente fredda e cinica.

Il secondo racconto è "Victoria e gli Staveney", la vicenda di un'orfana nera che dopo una dura infanzia avrà per caso una bambina dal figlio di una facoltosa famiglia  di bianchi e sarà a lungo divisa fra il dare a sua figlia ciò che non ha avuto lei da piccola e il perderla quasi del tutto. La storia invita a riflettere fin dalle prime pagine su alcune forme sottili di discriminazioni difficili da sradicare dal senso comune e sberleffa modi e approcci politicamente corretti di taluni ambienti. Da una parte la fragilità e l'ingenua impotenza di una protagonista abbandonata al corso degli eventi e forse per questo più vera del personaggio femminile forte e con gli attributi che a molte sarebbe piaciuto scoprire. Dall'altra tutta l'ipocrisia del perbenismo della classe borghese che si compiace nel sentirsi buona e generosa secondo i propri desideri.

L'ultimo testo è "Il figlio dell'amore". Il ritmo è molto più lento e trascinato rispetto ai precedenti racconti, ma probabilmente l'effetto è voluto per trasmettere l'angoscia dell'attesa che avverte il protagonista, un soldato convinto per vent'anni di aver ingravidato lontano da casa una donna amata e mai più rivista negli anni della guerra .

Tre racconti, tre storie, ma l'amarezza dell'esistenza sottolineata è la stessa. La maestria di Doris Lessing, non a caso Premio Nobel per la Letteratura nel 2008, si riconferma grazie alla sua incredibile capacità di narrare le vite dei suoi personaggi con stile pulito, scorrevole come acqua su un piano inclinato, e al suo talento nel sondare sentimenti di incredibile afflizione e mestizia.

Di Valentina Mazzella


Copyright © 2019 L'albero di limonate by Valentina Mazzella. All rights reserved

mercoledì 31 luglio 2019

"Blu" di Sergio Bambarén: mare, ottimismo e noia



RECENSIONE - Mi era stato a lungo più volte consigliato con entusiasmo da mia madre e, incoraggiata anche dalla fama che acclama lo scrittore, alla fine l'ho fatto: ho letto "Blu - Una storia di vita e di mare" di Sergio Bambarén, il noto autore de "Il Delfino". L'ho letto e purtroppo mi ha delusa. Anche per questo preferisco scrivere in merito una recensione un po' più informale. Il racconto è breve e scritto bene. Si legge in poche ore, anche con la testa altrove. Il ritmo assai scorrevole è farina dell'autore, ma sicuramente merito anche della traduzione curata da Marina Marini nell'edizione Mondolibri in mio possesso. 

Le immagini di Tobago, dei paesaggi naturali, degli ipnotici fondali marini e delle misteriose creature che vi abitano prendono forma nella mente del lettore in maniera nitida parola dopo parola. Il libro è una raccolta di ricordi e riflessioni su luoghi, persone e incredibili coincidenze in cui Bambarén si imbatte di volta in volta giunto in Venezuela per staccare la spina. È il diario di una vacanza che si rivela essere un viaggio dentro se stessi, un viaggio che chi legge scopre di poter far accanto allo scrittore grazie al suo inchiostro.



E allora cos'è che non mi ha soddisfatta? L'estenuante ottimismo di Bambarén in ogni singola frase, la morale positiva dietro ogni angolo e ogni sasso, il buonumore a tutti i costi... Non c'è pathos, non c'è suspense, non c'è crisi, non c'è inquietudine, non ci sono problemi da superare o colpi di scena a ravvivare la vicenda... Fondamentalmente perché non si tratta proprio di un romanzo che si propone questo taglio. Non ha fra le sue aspettative e le sue intenzioni quella di creare tensione nel lettore. Tutto il panigirico su quanto meravigliosa e ricca di sorprese la vita possa essere non è, almeno nel percorso del libro, una verità acquisita dopo un travaglio. Nessun cielo sereno dopo la tempesta. Solo tanta tanta tanta fiducia gratuita nel mondo, nella gente e nella vita. Gratuita. Messaggio che io assolutamente condivido in prima persona. 

Tuttavia abbandonato in questo modo sulla carta - fra una bella descrizione del mare e l'altra - perde, almeno per i miei personali gusti, attrattiva. Diventa un piccolo cumulo di frasi scontate che, per quanto vere e belle possano essere, ci si annoia a leggere. In conclusione quanto recrimino a Bambarén è la banalità con cui ha confezionato la storia. La lettura di questo romanzo è davvero un po' come un'immersione a diversi metri di profondità: scopri retroscena bellissimi, eppure dopo un po' ti manca l'ossigeno. Per la noia...

Di Valentina Mazzella


Copyright © 2019 L'albero di limonate by Valentina Mazzella. All rights reserved

sabato 20 luglio 2019

"Spider-Man: Far from home": Bimbo-Ragno passa per Venezia

             

RECENSIONE - "Casa dolce casa" si dice, eppure nel suo ultimo film il nostro amichevole Spider-Man di quartiere dimostra di sapersela cavare egregiamente anche dall'altra parte del mondo. Bimbo-Ragno attraversa l'oceano Atlantico per un semplice viaggio scolastico e si ritrova ad affrontare minacce, a combinare come al solito guai e a compiere grandi imprese in varie città europee. Questa è stata la prima sfida accettata "Spider-Man: Far from home" di Jon Watts: portare il nostro supereroe lontano dalla sua abituale comfort-zone del Queens.

E già a questo punto si lasci affermare che sensazionali sono in particolar modo le sequenze girate a Venezia. Dimostrazione lampante del fatto che, se mai in Italia decidessimo di investire seriamente grandi budget nel cinecomics, le nostre location non avrebbero nulla da invidiare alle scenografie americane per le storie di supereroi! Altro che grigi grattacieli newyorchesi... Vedere gli effetti speciali applicati ai canali di Venezia con le possibilità dell'architettura tricolore e delle nostre peculiarità è stato spettacolare! D'altronde lo sa bene, ad esempio, Gabriele Mainetti che nel 2015 ambientò "Lo chiamavano Jeeg Robot" nell'italianissima Roma con tanto di eroe in cima al Colosseo. Un po' più scettico Gabriele Salvatores che per "Il ragazzo invisibile" a suo tempo in un dibattito al Napoli COMICON ammise di aver scelto Trieste come sfondo perché "visivamente la meno italiana delle città in Italia". Pertanto la fantastica fotografia di "Spider-Man: Far from home", inconsapevolmente, offre anche una piccola riflessione anche per il nostro panorama cinematografico.


Per il resto tante cose bollono in pentola in questo episodio della saga. C'erano tante spiegazioni da rendere al pubblico dopo "Avengers: Endgame" e non è per nulla di poco peso la proposta di un Peter Parker chiamato a raccogliere l'eredità di Iron-Man. Fra l'altro la presenza del fantasma di Tony Stark si respira per tutti i centodieci minuti di proiezione. Quindi siamo di fronte a una trama ricca, ma ben costruita con situazioni e dialoghi spesso esilaranti. Una sceneggiatura che mira a decostruire abbastanza l'immaginario classico che il personaggio di Spider-Man ha avuto per settant'anni per reinventarne uno un po' più fresco. Si pensi ad esempio alla giovane età della zia May e alla totale assenza dello zio Ben.

Tuttavia ciò che resta inalterato è lo spirito e la psicologia di un ragazzo normale alle prese con responsabilità apparentemente più grandi di lui. Comune infatti è la quotidianità condotta da Peter, interpretato da Tom Holland ancora una volta egregiamente. Non a caso il film non si preclude spezzoni da commedia amorosa-adolescenziale oltre alle obbligate scene d'azione da mitologia Marvel. Il tutto senza risultare smielato, strappando sempre una risata dei presenti in sala. Anche la netta divisione fra buoni e cattivi, non troppo originale, non disturba. Il finale lascia i giusti elementi per creare suspense e accattivare la fiducia nei prossimi episodi che attendiamo con trepidazione.

Di Valentina Mazzella, pubblicato sul Napolisera.it in data 20 luglio 2019.

Copyright © 2019 L'albero di limonate by Valentina Mazzella. All rights reserved

giovedì 13 giugno 2019

"La bella estate" di Cesare Pavese e il passaggio dall'infanzia alla vita adulta


RECENSIONE - Si tratta solo di un centinaio di pagine, eppure "La bella estate" (1940) di Cesare Pavese è un romanzo breve di tutto rispetto. Non a caso fa parte di un trittico che con "Il diavolo sulle colline" (1948) e "Tra donne sole" (1949) nel 1950 vinse il Premio Strega.

La storia raccontata è ambientata nella Torino del secondo dopoguerra, quella negli anni Quaranta. Ecco allora che scrittura, atmosfere e costumi ci appaiono molto diversi da quelli odierni, sebbene mai "vecchi". A discapito della positività espressa dal titolo, ogni pagina è impregnata di una forte malinconia. Il lettore è invitato a vivere la quotidianità della protagonista, Ginia, nella stagione del suo passaggio dall'infanzia all'età adulta e ad assaggiarne con lei tutti i bocconi amari che questo comporta. È il racconto di un'estate così come metaforicamente in fondo ogni adolescente ha attraversato nella propria vita. 

Ginia ha sedici anni e pensa ingenuamente di essere già "grande" perché vive con il fratello maggiore badando da sola alla casa. Invece nel confronto con la disinibita amica Amelia si renderà conto, pur senza ammetterlo apertamente, di essere impreparata alla vita degli adulti a cui desidera appartenere. L'epoca descritta è quella in cui le ragazze venivano educate alla poca confidenza accordata ai ragazzi e al pudore. Pavese racconta l'emancipazione femminile così come viene percepita inconsciamente da Ginia ed Amelia, come una forma di ribellione al perbenismo e agli altri schemi della società borghese del tempo. Fumare, frequentare caffè, tornare a casa di notte, posare nude, avere amicizie maschili sono tutti modi per loro di rivendicare la propria indipendenza. Ciononostante dietro a tanta apparente spensieratezza non vi è felicità. Solo inquietudine. L'inquietudine tipica dell'adolescenza, ma non solo. L'amicizia fra le due ragazze non è veramente genuina, ma contrassegnata da opportunismo e una celata competizione femminile. La solitudine, la smania di non esser da meno rispetto ad Amelia e il desiderio di sentirsi amata e apprezzata spingeranno Ginia a lasciarsi affascinare da un ambiente quasi bohemien di giovani pittori improvvisati. Vivrà pertanto un primo tormentato amore, forse vissuto solo a senso unico, sciupando tuttavia innocenza ed energie per quella che si rivelerà una delusione.

"La storia di una verginità che si difende" è la definizione che Cesare Pavese scelse per indicare il sunto della sua opera. Ed effettivamente siamo di fronte a un lavoro letterario in cui la componente erotica si avverte forte, eppure con eleganza. Un erotismo che non ha nulla a che fare con la spregiudicatezza, spesso volgare e fine a se stessa, di oggi. In linea con i tempi, quello di Pavese è un erotismo delicato inserito in un clima emotivo troppo spesso grave in cui ogni dettaglio si presta a molteplici interpretazioni. Si pensi anche solo alla tenda che inizialmente aveva ispirato addirittura il titolo del libro. Una tenda che separa la fanciullezza di Ginia dalla sua nuova identità di donna, ma anche il visto dal non visto e il raccontabile da quanto invece è preferibile tacere.

Di Valentina Mazzella


Copyright © 2019 L'albero di limonate by Valentina Mazzella. All rights reserved

giovedì 6 giugno 2019

Dialogo con un imbuto di plastica




"Forse hanno ragione. Forse sono davvero pazzo" disse Paolo ad alta voce. Si massaggiava le tempie disegnando con i polpastrelli piccoli cerchi invisibili. Erano settimane che avvertiva una grossa tensione.
"Perché dici così?" chiese l'imbuto di plastica. Era sul tavolo a cui Paolo sedeva. Era bianco e capovolto con il beccuccio all'insù.
"Mi sembra ovvio: per colpa tua! Perché parlo con te!".
"Mi spiace. Mi spiace molto crearti di questi problemi" rispose l'imbuto rammaricato.
"Lascia stare... Non è realmente colpa tua. È che sono pazzo. È il mio cervello a essere difettoso..." commentò Paolo con gli occhi serrati. Avrebbe tanto voluto scomparire.
"Mi spiace lo stesso. Credimi, sono sincero".
"Allora potresti iniziare con lo stare zitto!" sbottò Paolo con un improvviso  tono adirato. Seguì un lungo minuto di silenzio. A interromperlo fu sempre l'uomo: "Che fai? Davvero non parli più?".
"Eh, tu mi hai detto di starmene zitto... Non ti vado bene neanche in questo modo? Beh, dovresti decidere..." sentenziò risentito l'imbuto bianco. A quanto pareva, i modi bruschi di Paolo dovevano averlo offeso.
"Non dovevi rispondere: era una prova! E poi non fare così... Cerca di comprendermi! Ti dico che la gente pensa che io sia matto! Matto, capisci? Fuori come un balcone...".
"Ma perché?".
"Perché parlo con te! Parlo con un imbuto!" ribatté Paolo. Aprì gli occhi e puntò lo sguardo sgranato sull'oggetto. Non aveva una bocca, eppure sentiva una voce provenire da esso. Era una vocina grossa, proprio come quella risonante di qualcuno che prova a parlare in un imbuto o in un secchio. 
"E che male c'è, scusa? Siamo amici noi in fondo... Oppure no?".
"Sei serio? Gli imbuti normalmente non parlano!" urlò Paolo iniziando a picchiettarsi la testa con le nocche dei pugni chiusi.
"Sembri un po' esaurito, lascia che te lo dica..." commento l'imbuto sospirando pesantemente.
Paolo si alzò dalla sedia. Non ce la faceva più a stare fermo. Doveva sgranchirsi un po' le gambe. Perciò iniziò a percorrere la cucina a grandi passi, andando avanti e indietro. Avanti e indietro. Avanti e indietro.
L'imbuto sospirò di nuovo in maniera rumorosa. Poi parve attendere qualche attimo prima di dire: "Normalmente... Normale di qua, normale di là... Ma che ti importa di quello che pensa la gente? Tu senti di stare bene?".
Paolo si fermò di colpo al centro della cucina. Quelle parole lo innervosirono ulteriormente. Sbraitò: "PARLO CON UN IMBUTO! Parlo con un cavolo di imbuto! E mi chiedi se stia bene? Credo che sia legittimo da parte mia provare a capire se io abbia o meno tutte le rotelle al loro posto! Stupido io che continuo anche a risponderti...".
In preda a un momento di debolezza, Paolo tornò a sedersi al tavolo. Le ginocchia sembravano non reggere più il suo peso. Temeva di poter svenire da un momento all'altro. Meditò se fosse il caso di bere un bicchiere di acqua con dello zucchero. Poi lo assalì una paura tremenda: quella di aprire la credenza e scoprire che magari vi potessero essere altre cose capaci di parlare. Gli passò subito il desiderio dell'acqua con lo zucchero, nonostante il crescente calo di pressione.
"È lui che parla o io che sento le voci?" domandò Paolo a se stesso, chiudendo gli occhi. Puntò i gomiti sul tavolo e tornò a massaggiarsi le tempie.
"Parli sempre di me?" chiese timidamente l'imbuto di plastica.
"Shhhhhhhh!" lo zittì l'uomo. Voleva riflettere. Non riusciva tuttavia a trovare una risposta al dilemma. "Sulle persone come me ci scrivono le barzellette, ti rendi conto?".
"Barzellette?".
"Sì, barzellette... Ad esempio quella del malato di mente che in manicomio parla con lo spazzolino da denti e cerca di apparire sano durante una consulenza con lo psichiatra...".
"Ma io non sono uno spazzolino da denti e comunque non la conosco" disse l'imbuto.
"Non importa. Non ho voglia di raccontartela".
"Prima mi raccontavi tanti aneddoti divertenti. Ti sono diventato all'improvviso tanto odioso?".
"Non provare a fare leva sui sensi di colpa con me, ti avverto!" protestò Paolo irrigidendosi sulla sedia. Gli puntò il dito contro e, gesticolando, iniziò a farneticare: "Vogliamo parlare? Vogliamo parlare? E allora discutiamo proprio del perché io parli con te... Quale potrebbe essere la spiegazione? Dal punto di vista psicologico, si capisce...". Era visibilmente agitato. Non aveva per nulla una bella cera. "Quale messaggio recondito potresti nascondere? Cosa starà cercando di dirmi la mia testa? Vediamo: imbuto, imbuto, imbuto...".
"Secondo me dovresti calmarti. Forse non dovevi bere quel caffè poco fa".
Paolo non si curò di quella considerazione e proseguì con le sue riflessioni: "Mi viene in mente l'imbuto che aveva in testa L'Uomo di latta nella storia del Mago di Oz, certo. Tuttavia non capisco perché quel personaggio dovrebbe avere un nesso con la mia vita...".
"Neanch'io sinceramente" bofonchiò l'imbuto.
"Non mi sei di aiuto" lo apostrofò Paolo. "Oppure rammento che alle scuole elementari, per insegnare a noi bambini la lettera 'i', la maestra usasse spesso il disegno di un imbuto. Sai, la 'i' di imbuto".
"E perché non la 'i' di indiano?".
"Non lo so, ma questo non c'entra. Soffermiamoci sugli imbuti, non sugli indiani. Anche questo ricordo non mi sembra pertinente..." piagnucolò Paolo reggendosi la testa con entrambe le mani. Aveva paura. Paura di ammettere che gli altri avessero ragione. Probabilmente era davvero il caso di rivolgersi a uno specialista.
"C'è anche l'imbuto che tuo nonno usava per travasare il vino nei fiaschi. Magari sei ubriaco" suggerì l'imbuto bianco.
"Ma io sono astemio!" sbottò Paolo. "Oppure sono così ubriaco da credermi sobrio! Sarebbe possibile una cosa del genere?".
"Sono un imbuto io. Non mi sono mai sbronzato".
"È tremendo. Tutto tremendamente tremendo. Cielo! Le alternative sono due: o mi rivolgo a uno psichiatra o continuo a fingere con tutti di non sentirti parlare. Se però così rischiassi poi di degenerare?" confessò Paolo alzandosi di nuovo in piedi. Attraversò la cucina, raggiunse il lavello e aprì il rubinetto dell'acqua fredda. Si sciacquò il viso con gesti lenti e meccanici. Richiuse il rubinetto e si asciugò con uno strofinaccio pulito riposto là accanto. Si voltò e tornò a guardare pensieroso l'imbuto bianco sul tavolo.
"Sto meditando... Sei uno strumento che serve a travasare liquidi poco alla volta, senza sprechi e disastri. Forse dovrei concentrarmi sulla tua funzione".
"Può darsi. Adesso ti va di travasare un po' di acqua nelle bottiglie?" propose l'imbuto bianco con voce un po' annoiata.
"Va bene, ma riempiamo solo tre bottiglie".


Racconto breve di Valentina Mazzella



Copyright © 2019 L'albero di limonate by Valentina Mazzella. All rights reserved