Per chiunque entrasse nella mia stanza quello steso sul pavimento in marmo doveva sembrare senza alcuna ombra di dubbio un banalissimo tappeto blu. Era grande, quadrangolare e abbastanza robusto. Che io ricordi il suo era uno spessore di almeno due centimetri. Mia madre lo disponeva al centro della stanza d'inverno in modo che non prendessi freddo giocando per terra seduta all'indiana. Quando arrivava il caldo delle belle stagioni, il tappeto scompariva. Prima che i miei genitori lo nascondessero chissà dove, rammento che arrotolato su se stesso fosse grosso e pesante. Con il primo gelo il tappeto ricompariva. E così ogni anno.
La sua superficie era di un materiale simile al velluto. Quando ricopriva pigramente il pavimento, la luce che di giorno penetrava dalla finestra l'accarezzava disegnando sfumature diverse di blu. Un po' come spesso accade con le penne lucide di alcuni uccelli dal piumaggio scuro.
Senza riserve era un tappeto normalissimo. Copriva abbondantemente lo spazio vuoto compreso fra l'armadio e il divano. Ad occhio e croce si sarà trattato di un'estensione di poco superiore ai quattro metri quadrati. Era molto comodo, eppure semplice. Comune, come tanti. Non era particolarmente bello. Non aveva una trama speciale come i tappeti persiani. Non era un tappeto magico. Non volava come quello di Aladino. Eppure per me era importante.
Era importante perché non volava, ma mi permetteva lo stesso di volare. Da bambina infatti decisi di promuovere il perimetro di quel tappeto a linea di confine di qualsiasi mondo fantastico scegliessi come ambientazione per i miei giochi infantili.
Ad esempio, nel periodo in cui guardavo quotidianamente la videocassetta Disney di "Alice nel Paese delle Meraviglie", curai con meticolosa attenzione una scenografia che mi permettesse di rivivere nella mia stanza le avventure della figlioccia letteraria di Lewis Carroll. In punti considerati opportuni collocavo pupazzi e giocattoli con cui improvvisare i dialoghi della storia. Il tocco di classe non era però dato dai vari peluche di conigli o gatti disseminati a destra e a manca. E nemmeno dal tavolino con le bottigliette finte che avrebbero in teoria modificato le mie dimensioni. Per me il fiore all'occhiello di cui ero orgogliosa, dal basso dei miei quattro o cinque anni, era la sediolina che posizionavo sul bordo del tappeto blu. Quella sotto cui strisciavo per addentrarmi nella tana del Bianconiglio. A tempo debito poi mi mettevo a carponi e guardavo sotto la sedia. Nella realtà attraverso i suoi piedi da osservare c'era unicamente il tappeto blu. Ciononostante i miei occhi vedevano i fiori, gli alberi, il cielo azzurro e il sole del meraviglioso giardino che Alice spiava dalla porticina piccola piccola nascosta dietro la tenda.
Il tappeto blu era tutto ciò. Sono stati tanti i giochi e le peripezie che da piccola immaginavo su quel tappeto. Raccontarli tutti forse richiederebbe un libro. Tuttavia oggi nei miei ricordi il tappeto blu resta soprattutto il giardino segreto di Alice.
Poi con l'avvento dell'estate iniziavano i mille giochi sul balcone, "all'aperto". Le case e le tende costruite con le tovaglie, i "campeggi" fino all'ora dei pasti, i legumi nell'ovatta umida, i piatti di plastica colmi di acqua inseriti nel freezer per far pattinare sul ghiaccio le bambole, gli inutili tentativi di catturare i passerotti con del pane nascosto sotto a una bacinella sollevata da una molletta legata a un filo di spago come nei cartoni animati... Non avevo davvero bisogno del tappeto blu per inventare mondi e avventure.
Ciononostante ricordo perfettamente la sera in cui mamma e papà buttarono il tappeto blu. Fu un vero trauma per me che ero piccola e non non frequentavo ancora nemmeno le scuole elementari. Ero seduta sul sedile posteriore dell'auto. Mio padre parcheggiò e vidi i miei genitori depositare il tappeto blu arrotolato su stesso in un grosso bidone dell'immondizia.
"Mamma! Perché lo avete messo lì? Lo avete buttato?" domandai col naso schiacciato contro il finestrino. Probabilmente fu evidente da subito quanto fossi contrariata e agitata da quella scena perché mia madre lì per lì mi rispose: "No no, non lo stiamo buttando" negando l'ovvietà.
Tuttavia mio padre accese il motore, l'auto ripartì e il mio sguardo rimase fisso sul bidone fin quando non scomparve alla prima curva. Quella è stata l'ultima volta in cui vidi il tappeto blu. Ci rimasi terribilmente male perché "non l'avevo nemmeno salutato". Non mi importava che fosse solo un oggetto. Avevo giocato seduta sul suo velluto con le gambe incrociate un'ultima volta dopo anni senza sapere che fosse un addio.
Determinata a conservare le speranze, successivamente chiesi a mia madre notizie del tappeto. In un'occasione mi rispose sostenendo fosse in lavanderia. Un altro giorno poi finalmente ammise che non l'avrei più rivisto perché gettarlo era stato necessario: "Troppo vecchio. E poi sui tappeti si fanno gli acari".
Io non sapevo bene cosa fossero gli acari. Ne avevo visto qualche bruttissimo disegno in delle locandine informative nella sala d'attesa del mio pediatra. In ogni caso questa spiegazione non attenuò la mia delusione.
Nessun tappeto nuovo è poi più entrato nella mia camera. Progressivamente scomparvero anche gli altri tappeti presenti in casa e io oggi detesto quasi in maniera viscerale i tappeti. Tanto da non usare nemmeno quello del bagno quando esco dalla doccia. Non saprei dire se ci sia un nesso: se assurdamente io abbia poi finito con il detestare tutti i tappeti proprio per aver tanto amato il tappeto blu da bambina...
Mi è tornata in mente questa storia perché stiamo attraversando i giorni della quarantena a causa dell'epidemia da Coronavirus. Tutti si lamentano nel trattenersi chiusi in casa, sebbene per esigenza. E ho ricordato i tempi in cui nell'infanzia era tutto più semplice e bastava un tappeto blu per abbandonare le quattro mura e approdare in remote realtà fantastiche. Non è lo stesso, non è il punto e il mio blaterare è sicuramente un fuori tema. Eppure per vivere alle volte è necessario sapersi reinventare, imparare a esaminare le situazioni con sguardo nuovo e scoprire in fondo come sia ugualmente possibile giocare anche senza l'amato tappeto blu.
Racconto di Valentina Mazzella.
Copyright © 2019 L'albero di limonate by Valentina Mazzella. All rights reserved
Mi è tornata in mente questa storia perché stiamo attraversando i giorni della quarantena a causa dell'epidemia da Coronavirus. Tutti si lamentano nel trattenersi chiusi in casa, sebbene per esigenza. E ho ricordato i tempi in cui nell'infanzia era tutto più semplice e bastava un tappeto blu per abbandonare le quattro mura e approdare in remote realtà fantastiche. Non è lo stesso, non è il punto e il mio blaterare è sicuramente un fuori tema. Eppure per vivere alle volte è necessario sapersi reinventare, imparare a esaminare le situazioni con sguardo nuovo e scoprire in fondo come sia ugualmente possibile giocare anche senza l'amato tappeto blu.
Racconto di Valentina Mazzella.
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