giovedì 22 agosto 2019

"Napoli velata”: un film fumoso sui misteri dell’esoterismo partenopeo e quelli della vita



RECENSIONE – Un film fumoso, dalla trama intricata. Enigmatico. Probabilmente volutamente criptico. È quanto in sintesi si può dire a proposito di “Napoli velata”, l’ultima pellicola del regista Ferzan Özpetek. Al termine della proiezione sono tanti i dubbi e le perplessità che assaliscono lo spettatore che, di primo acchito, prova la desolante sensazione di non aver forse capito esattamente tutto. Forse gli sarà sfuggito qualche particolare, prova a giustificarsi mestamente durante i titoli di coda. Ciononostante sente di esser stato positivamente stordito dalle immagini, dai colori e dal folclore in cui “Napoli velata” l’ha immerso per due ore. Sensazioni di trasporto, confusione e angoscia attraversano tutta la storia senza abbandonare né i personaggi e né il pubblico.

La  città di Napoli sullo sfondo si rivela più scenografica che mai. Bellissima e ammaliante, conferma di esser nata per il cinema e il teatro. I suoi miti, le tradizioni e le superstizioni che la popolano non rinunciano al loro fascino. Seducono e incuriosiscono passanti, scettici e incauti senza alcuna distinzione. Ed è forse qui che la trama contorta e il carisma dell’esoterismo partenopeo si incontrano in un noir irrisolto. “Napoli velata” si articola superficialmente come un giallo, ma non desidera guidare lo spettatore verso un’univoca soluzione del delitto. Preferisce abbandonarsi al mistero perché il rompicapo vissuto dai protagonisti diventa in questo modo il doppio più palpabile di quei misteri trascendentali che abitano la dimensione dell’occultismo popolare. L’astrusità della scomparsa di Andrea finisce con l’essere quasi una proiezione contemporanea della leggenda napoletana secondo cui Raimondo Di Sangro, settimo Principe di Sansevero, avrebbe reso cieco l’artista Giuseppe Sanmartino dopo la realizzazione del Cristo velato, in modo che non avesse più l’opportunità di riprodurne una copia. “Non è vero, ma ci credo” potrebbe essere un po’ il messaggio che fra una sequenza e l’altra del film si percepisce: non crediamo alle medium, ma provar non nuoce. Non crediamo ai complotti, ma nutriamo poca fiducia verso coloro che avvertiamo ambigui e potenzialmente ipocriti. Non crediamo ai fantasmi, ma alle volte tutto sembra possibile e così via.



sostegno di questa vaporosa interpretazione, tutto il film è attraversato dalle immagini intriganti di occhi e veli. Immagini ora solo evocate, immagini ora mostrate… ma non importa. Costituiscono in ogni caso delle costanti nella pellicola che non possono essere state inserite a caso senza un significativo contenuto recondito. Dall’occhio della bambina all’amuleto del padre, dagli occhi di Andrea a quelli di Sanmartino, dal velo della Figliata dei Femminielli  a quello dell’utero in bassorilievo artistico, dal velo del Cristo velato al velo che nasconde la verità che la pellicola prova a raccontare. Se a tutto ciò si aggiungono le citazioni cinematografiche che citano Hitchcock o le scene nel Museo Archeologico che portano alla mente “Viaggio in Italia” di Rossellini (1954), scopriamo che “Napoli velata” sceglie di giocare investendo su una grossa puntata. E poiché purtroppo la sua sceneggiatura non  risulta all’altezza dei propositi concettuali, finisce col rivelarsi un film interessante, ma imperfetto e pretenzioso con eccessive aspettative intellettuali. Una pellicola che nasce come thriller e inciampa come commedia.

Il soggetto intriga, ma è stato sviluppato senza curare troppo i dettagli. Ne deriva pertanto una storia con troppe lacune disseminate lungo il percorso dei personaggi (tanto per dirne una: alla fine chi ha messo davvero a soqquadro l’appartamento di Adriana?) e condonare tutti i vuoti con l’ambiguità della verità non basta. Le sequenze erotiche all’inizio del film sono state inutilmente lunghe e a tratti volgari, ma soprattutto la loro natura esplicita poco funzionale allo sviluppo della trama. Riflettendo su tutta la vicenda narrata, la devota ossessione della protagonista appare forzata in seguito a un banale incontro di sesso occasionale. Non vogliamo film di donne a tutti i costi pudiche e riservate, ma raccontare uno slancio emotivo costruito quasi solo sulla dimensione carnale sembra far perdere spessore e credibilità alla protagonista. Allo stesso modo in eccesso appare l’inserimento del suo passato drammatico. “Napoli velata” diventa in questi termini un minestrone con troppa carne a cuocere in cui niente viene cotto a puntino.


Altra carenza del film è il non aver approfondito la dimensione più sacra della città partenopea. La complessità del connubio sacro e profano viene messa da parte per arginare la prima dimensione in un’unica scena in cui Adriana, camminando, si ferma a osservare un crocifisso. Una scelta che ha appiattito la natura tortuosa della cultura nostrana. Tuttavia non ci stendiamo sopra un velo pietoso perché le molteplici pecche di questa pellicola vengono perdonate grazie all’eleganza di alcune maestrali sequenze di macchina e alla performance di un cast di attori rinomati che annovera Giovanna Mezzogiorno, Alessandro Borghi, Anna Bonaiuto, Peppe Barra, Lina Sastri, Luisa Ranierie Isabella Ferrari. In conclusione un film da guardare senza troppe pretese, con lo stesso spirito di curiosità e la voglia di mettersi alla prova con cui ci si approccia a un rebus.



Di Valentina Mazzella, pubblicato sul Napolisera.it in data 24 gennaio 2018.

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venerdì 16 agosto 2019

"Le nonne" di Doris Lessing: l'amarezza della vita in tre racconti



RECENSIONE - Vi è mai capitato di avere l'impressione di star subendo delle ingiustizie da parte della vita? Magari per puro suo sadico accanimento o a causa della pressione sociale e di altre circostanze analoghe... Oppure peggio: avete mai avuto la sensazione di star vivendo una vita che non sia la vostra? Sono forse proprio questi i disagi umani che Doris Lessing esplora attraverso i tre racconti raccolti nel libro "Le nonne".

Il primo dà il titolo all'opera, "Le nonne" per l'appunto. Nel 2013 la regia di Anne Fointane ne ha tratto anche il film "Two mothers". La vicenda è di per sé pruriginosa perché narra di due amiche,  delle donne adulte, che si lasciano travolgere da una discutibile passione che ciascuna delle due condividerà per anni con il figlio dell'altra e viceversa sin dall'epoca in cui i ragazzi sono solo dei sedicenni. Eppure la Lessing racconta il tutto con adeguato distacco, senza puntare il dito o far pesare un giudizio morale sui fatti. Soprattutto lo fa con eleganza, senza soffermarsi su particolari erotici. Solo sulle dinamiche relazionali e psicologiche, per quanto in maniera intenzionalmente fredda e cinica.

Il secondo racconto è "Victoria e gli Staveney", la vicenda di un'orfana nera che dopo una dura infanzia avrà per caso una bambina dal figlio di una facoltosa famiglia  di bianchi e sarà a lungo divisa fra il dare a sua figlia ciò che non ha avuto lei da piccola e il perderla quasi del tutto. La storia invita a riflettere fin dalle prime pagine su alcune forme sottili di discriminazioni difficili da sradicare dal senso comune e sberleffa modi e approcci politicamente corretti di taluni ambienti. Da una parte la fragilità e l'ingenua impotenza di una protagonista abbandonata al corso degli eventi e forse per questo più vera del personaggio femminile forte e con gli attributi che a molte sarebbe piaciuto scoprire. Dall'altra tutta l'ipocrisia del perbenismo della classe borghese che si compiace nel sentirsi buona e generosa secondo i propri desideri.

L'ultimo testo è "Il figlio dell'amore". Il ritmo è molto più lento e trascinato rispetto ai precedenti racconti, ma probabilmente l'effetto è voluto per trasmettere l'angoscia dell'attesa che avverte il protagonista, un soldato convinto per vent'anni di aver ingravidato lontano da casa una donna amata e mai più rivista negli anni della guerra .

Tre racconti, tre storie, ma l'amarezza dell'esistenza sottolineata è la stessa. La maestria di Doris Lessing, non a caso Premio Nobel per la Letteratura nel 2008, si riconferma grazie alla sua incredibile capacità di narrare le vite dei suoi personaggi con stile pulito, scorrevole come acqua su un piano inclinato, e al suo talento nel sondare sentimenti di incredibile afflizione e mestizia.

Di Valentina Mazzella


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